martedì 10 febbraio 2015

La versione di Alessio - 2

Quella stupida cravatta stretta 

La faccia mi si è aperta di nuovo nel sorriso da cretino che mi compariva ogni volta che la vedevo e non ho fatto niente per togliermelo. La cravatta continuava a sembrarmi troppo stretta così salendo l’ho allentata. Speravo che lei venisse davanti con me ma si è subito infilata dietro.
«Accompagno prima te Martina, ok?»
Non avrei accettato un no come risposta. Avevo voglia di baciarla e con Martina in mezzo non ci sarei riuscito.
«Perché?» ha chiesto lei con voce acutissima.
Le ho inventato la prima cosa che mi è venuta in mente. «Perché casa tua è di strada.»
«Va beh, mi puoi accompagnare dopo comunque», ha ribattuto.
«Ma devo fare il giro delle sette chiese! No dai, ti accompagno per prima.»
Se avesse insistito sarei stato costretto a inventarle una balla ancora più grande, tipo che Dafne era mia cugina, o che stava male. O che se non l’avessi baciata la cravatta mi avrebbe stritolato. Mi stava davvero stritolando. E più cercavo i suoi occhi nello specchietto retrovisore, più la cravatta mi stringeva.
«Pensavo che avremmo passato la serata insieme.»
Non le ho riposto. Sì, forse quando l’avevo invitata l’idea era stata quella ma no, in quel momento non lo era più. Non volevo passare la serata con lei. Avrei fatto centro con qualcun altro.
Arrivati davanti a casa di Martina ho sperato che lei se ne andasse senza dire né fare niente di compromettente, ma forse era chiedere troppo. Si è voltata verso Dafne e quasi l’ha fulminata con gli occhi, poi mi si è lanciata contro e mi ha baciato. La tentazione di allontanarla era così forte da farmi sentire la cravatta come ancora più micidiale quindi ho provato a muovermi il meno possibile. Non volevo uccidermi prima di averla baciata.
Oddio, era un pensiero fisso.
«Ciao», ha salutato la donna dal seno prorompente di cui per la prima volta non me ne fregava niente. Ero troppo concentrato sul seno molto più piccolo che era alle mie spalle e che volevo fosse più vicino a me.
«Vieni davanti», le ho proposto quando Martina ha chiuso lo sportello.
«No grazie, sto comoda qui», ha risposto lei arricciando il naso.
«Ok», ho detto sperando che il mio disappunto non trasparisse. «Ti va un caffè?»
«...»
«Una birra?»
«Mmm. Ok, una birra.»
Se non avessi rovinato tutto me la sarei portata a letto nel giro di qualche ora. Mentre cercavo parcheggio continuavo a guardarla dallo specchietto retrovisore e stranamente non me la stavo immaginando nuda. Era facile. Quella strana cosa che faceva con il naso era carina un casino.
Lo abbiamo trovato non troppo lontano da un bar con le poltroncine fuori e con la musica a un volume non esagerato.
Il suo vestito metteva in mostra delle gambe da urlo. «Che prendi?» ho domandato per distrarmi. Era silenziosa ma il suo era un silenzio attivo e io ero così preso da lei da essermi chiuso nello stesso silenzio.
Ha arricciato la bocca e si è messa a sedere. «Birra bionda», ha risposto.
Quando il ragazzo del bar è arrivato ho ordinato due birre e poi ho detto la prima cavolata che mi è venuta in mente. «Non è male qui, no?»
Un cretino. Mi aveva mandato in palla. Per fortuna ha risposto, e ha parlato. All’inizio poco ma via via che la birra le scivolava tra le labbra, che non riuscivo a smettere di fissare, la sua parlantina è aumentata e abbiamo chiacchierato tantissimo.
Fino a quando non si è messa in stand-by. Sarei stato a guardarla per ore. Vestita. Ero messo male.
«Perché non mi guardi mai?»
Insomma, io non riuscivo a smettere di fissarla. Fissavo le sue mani, le sue gambe, la sua bocca, i suoi spettacolari occhi. Erano come due opali, quelle pietre azzurrognole con sfumature di grigio, rosa, verde. E non so nemmeno come mi era venuto in mente perché non me n’è mai fregato niente delle pietre preziose e di sicuro non in relazione agli occhi di una ragazza.
Dovevo portarmela a letto prima di perdere il senno. Se l’avessi fatto, tutto sarebbe finito.
«Mmm?»
«Non mi guardi. Mi parli ma ti giri in un’altra direzione.»
«Non è vero. In macchina, nello specchietto, ti ho guardato.»
Mi sono messo a ridere. Era troppo buffa.
«Ok, ma per tutto il resto del tempo no.» Avevo bisogno che lo facesse. Che mi stendesse. Che mi salisse sulle gambe e mi slacciasse ancora di più quella stupida cravatta stretta. Più la allargavo e più si stringeva.
Ma quando si è voltata verso di me non si è allentata di un cxxxo. Anzi, è diventata ancora più stretta e io ho sperato, quasi pregato, che la soluzione fossero le sue labbra.
Non mi piaceva per niente sentirmi in quel modo.
«Va bene così?»
Ero così in crisi che ho pensato di non piacerle. E se non le fossi piaciuto?
«Sì, grazie. Sono così brutto da meritare anche un respirone?»
«Non direi proprio», ha risposto abbassando gli occhi.
La cravatta si è fatta più problematica. L’ho allargata ancora ma era già a dieci centimetri dalla mia prominenza laringea e non capivo perché mi desse quella sensazione. Mi mancava l’aria.
«Le tolgo», ha detto improvvisamente muovendo le mani sulla testa riferendosi alle forcine che aveva tra i capelli.
«Sono tremende?» ho chiesto.
«Mm mm.»
«Ti aiuto.»
«…»
«Posso?»
Imploravo perché mi dicesse di sì. Avevo bisogno di toccarla.
«…»
Le ho fatto un sorriso da cretino, il sorriso che mi porto dietro dal treno, e l’ho aiutata davvero. Aveva degli strani riflessi dorati tra i capelli castani. E io ero rovinato. Non mi è mai importato niente dei riflessi di niente.
«Stai bene anche senza occhiali.»
Avrei voluto dirle che stava bene senza occhiali anche tra le mie braccia, nel sedile della mia macchina, o nel suo appartamento. Avrei anche voluto dirle che era bella. Bella davvero.
«Quando mi hai visto con gli occhiali?»
Il cuore mi ha fatto una cosa strana. Si è accartocciato per un istante all’idea che non si ricordasse di me.
«A gennaio, in treno. Avevi la febbre. Non ti ricordi?»
«...»
Sì, si ricordava. Il cuore ha ripreso la sua forma e io le ho sorriso.
«Sai, mi sono sempre chiesto perché tu fossi scappata. Potevo accompagnarti.»
«Avevo già avvertito mio fratello.»
«Ma quando sei scesa era già lì?»
«No», ha risposto arricciando la bocca sulla destra.
«Dopo quanto è arrivato?»
«Dieci minuti.»
«Avrei potuto accompagnarti.»
Se l’avessi baciata allora forse non sarei stato in quello stato ridicolo. Se l’avessi baciata allora non mi avrebbe fatto nessun effetto vederla al bar, né chiacchierare con lei dopo una serata di gala.
Dovevo risolvere il problema prima che la situazione mi sfuggisse di mano.
Abbiamo continuato a parlare, abbiamo riso come matti, abbiamo camminato, scherzato e io stavo così bene che non avevo voglia di tornare alla macchina. Di baciarla, sì, ma non di salutarla, e avevo paura. Io non ho mai paura, specialmente di baciare una ragazza. Di solito ci stanno, punto.
Ma con lei avevo paura di fare un casino. Avevo paura di un due di picche. Non sono abituato al due di picche.
Con le mani in tasca e un’espressione da tonto l’ho guardata mentre si appoggiava allo sportello della mia auto. Forse ci stava, così non me lo sono ripetuto due volte e mi sono avvicinato a lei. Fremevo dalla voglia di assaggiare il suo sapore, di passare la lingua su quelle labbra rosa che si arricciavano così tanto ma quando pensavo di aver raggiunto il traguardo mi ha appoggiato un dito sul naso. Assurdo. Mi ha messo un dito sul naso e mi ha chiesto: «Quante ragazze hai intenzione di baciare nella stessa sera?»
Una. Una sola. Ma mi aveva fregato quell’altra e adesso lei non ci stava.
Le ho fatto un sorriso diverso, un sorriso in cui c’era anche il senso di colpa. Io? Senso di colpa? No, impossibile.
«E tu metti spesso un dito sul naso del ragazzo che vuole baciarti?»
«No. È più facile che mi ritragga.»
«E perché non l’hai fatto adesso?»
«Mm mm.»
«Che è?» ho chiesto.
«Cosa?»
«Quel rumore.»
Quel rumore adorabile che usciva dalla sua bocca. Ok, ero fregato. Seriamente fregato.
«Io.»
«Mm mm», l’ho presa in giro. Le ho appoggiato la mano sul fianco e ho provato di nuovo. Ho pregato che ci stesse. Dovevo sentirla tra le mie braccia. Volevo il suo sapore a tutti i costi.
Ma al posto delle labbra la mia bocca si è scontrata con i suoi capelli. Ho sbuffato dolcemente e le ho dato un bacio, annusando il suo odore.
«Profumano di buono.»
«…»
«Ok, ho capito. Non vuoi. Ti riporto a casa, ok?»
«Mm mm.»
Ero fregato. E la cravatta non smetteva di togliermi il respiro.

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