venerdì 27 novembre 2015

Hunger Games

Sebbene io mi trovi d'accordo con l'idea che il film è spesso meno bello del libro, apprezzo la rappresentazione cinematografica di una storia che ho letto. Probabilmente blatero e scalcio per gran parte del tempo perché certe cose non tornano o non sono realizzate come dovrebbero, ma blatero e scalcio nella mia testa, senza infastidire nessuno, e guardare un film o una serie tv insieme a me risulta comunque piacevole. Perché sto tessendo le mie lodi, proprio non lo so.


Con Hunger Games è andata all'incirca così. Il primo capitolo della saga l'ho letto più o meno contemporaneamente al film, pensando, dall'inizio alla fine, che ciò che avevano creato con scenografie e regia fosse una storia per ragazzi. Mi turbava il fatto che il libro non lo fosse affatto, e che, anzi, fosse una delle storie più tragiche che nella fantascienza mi fosse capitato di leggere. Hunger games appartiene alla tipologia che dice molto, molto più di quello che sembra. Le prime pellicole, purtroppo, non sono così profonde. Non che non siano belle, tutt'altro. Trovo che la scelta dell'attrice - la fighissima Jennifer Lawrence, vincitrice di un premio oscar - e del migliore amico Gale - uno dei fighissimi fratelli Hemsworth, Liam - siano perfette (ma non quella di Peeta, interpretato da Josh Hutcherson. Sembra che abbiano fatto apposta a prendere l'attore meno adatto per la parte). Trovo che l'ambientazione, i silenzi e i suoni, le emozioni, siano perfette. Insomma, mi sono piaciuti


Ma sono superficie.
Il libro è tutto il resto. Il libro non è la storia di una ragazzina che deve affrontare il nemico. Il libro è la storia di persone sottomesse, di giovani che devo uccidersi tra loro per il divertimento di altri. E l'ho scoperto solo rileggendolo. 
Volevo, in effetti, prepararmi all'uscita dell'ultimo capitolo della saga e ho ripreso in mano tutto. Ingnara di ciò che, dimenticate le scene del film, avrei trovato. C'è così tanto dolore, così tanta desolazione e così tanta rabbia da essere arrivata a chiedermi cosa avessi letto la prima volta.  
Tuttavia, non era colpa mia, quanto dei primi due film. Belli, bellissimi. Solo... film per ragazzi.
Non così il libro, tant'è che è stato, per molti aspetti, criticato per i cattivi insegnamenti e per i temi, un po' come The giver e il suo seguito. La colpa, se di colpa si può parlare, credo che sia quella di voler categorizzare a tutti i costi qualcosa in quel modo. Siccome c'è una ragazza di sedici anni, siccome è distopico e siccome è americano, è per ragazzi. Strano pensare che possa essere messo al pari di libri dello stesso genere che sono veramente per ragazzi, dal modo in cui si raccontano a quello in cui si presentano. 


Quando Katniss urla "Mi offro volontaria, mi offro volontaria come tributo!" sa di aver appena firmato la sua condanna a morte. È il giorno dell'estrazione dei partecipanti agli Hunger Games, un reality show organizzato ogni anno da Capitol City con una sola regola: uccidi o muori. Ognuno dei Distretti deve sorteggiare un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni che verrà gettato nell'Arena a combattere fino alla morte. Ne sopravvive uno solo, il più bravo, il più forte, ma anche quello che si conquista il pubblico, gli sponsor, l'audience.
Hunger games è la storia di una rivolta. Una rivolta contro il potere che costringe e toglie il respiro, che uccide, che impoverisce, che fa del male per godere del bene individuale. Katniss non è un personaggio simpatico. Affronta la sorte che le tocca con angoscia, rabbia e follia. Egoista, burrascosa, lunatica, è l'eroina che quasi mai si incontra in storie di questo tipo, quella che non sai se odiare o amare. I suoi pensieri, la sua voglia di smettere di combattere - non contro il nemico ma per la vita - il dolore che prova e che ripete, ripete e ripete ancora, entrano dentro. Entrano da qualche parte, lentamente, scavano e si fermano, si depositano lasciando il lettore turbato. Il terzo, sotto certi aspetti, è davvero difficoltoso. Il desiderio è che finisca il prima possibile perché tutto quel dolore e quel senso di impotenza sono difficili da mandare giù. Ed è proprio questo il suo bello. 
Lo stile è unico, forte, raramente artificioso ma mai semplice. 

Per quanto riguarda i film, i primi due sembrano la versione edulcorata del libro. Hanno tagliato lo strazio e l'angoscia e le hanno sostituite con tanta azione. La prima parte del terzo, che dalla maggior parte del pubblico è stato criticato, ha acquistato, secondo me, credibilità. Non perché sia più bello, ma perché è più vicino alla storia raccontata
Il terzo, che ho visto la settimana scorsa, è la giusta conclusione dell'intera saga. Fedele quanto basta al romanzo e per questo validissimo.
Vi lascio il trailer. 

  
Qualcuno di voi lo ha letto o ha intenzione di leggerlo? 
Qualcuno di voi lo ha visto o ha intenzione di vederlo?

Sono quasi riuscita a farlo passare per Dostoevskij. Eh, eh.  

M. 

Postilla: non me ne vogliano gli amanti di Dostoevskij. Era una battuta. 

mercoledì 25 novembre 2015

Blogtour "Il mio supereroe"

Questo post, totalmente imprevisto, è volto a:
- salutarvi: emmosi cari, come state?
- comunicarvi che oggi, 25 novembre, parte il blogtour de Il mio supereroe.

Per chi non lo sapesse, anche se credo che lo sappiate tutti, un book blogtour è un viaggio a tappe in vari blog che presentano, ognuno in modo diverso, un libro. 
Detto a parole mie: pillole e curiosità raccontate su dei fighissimi blog per permettervi di conoscere meglio i personaggi di un testo, le sue ambientazioni, l'autore, e tutto ciò che rientra nella categoria "pillole e curiosità". 
Ma anche: M. che girella per i blog saltellando allegramente da una parte all'altra fingendo di sapere cosa sta facendo.
Carino, vero?
Sì beh, il blogtour è carino, io che saltello allegramente, non lo so. Il fatto è che l'ho trovato, fin dalla sua scoperta, un'idea simpatica e dopo tanto ragionare mi sono decisa.




Ecco le tappe!

25 novembre - 1° TAPPA – Presentazione Blogtour + Incipit 
27 novembre - 2° TAPPA – Intervista all’autrice 
30 novembre - 3° TAPPA – Recensione 
2 dicembre - 4° TAPPA – Estratto 
4 dicembre - 5° TAPPA – I consigli natalizi di Angelica: le sciarpe 


Dai dai, seguiteCI!

M. saltellante

venerdì 20 novembre 2015

Punto di partenza?

Sono in una fase di passaggio delicata. Vengo da un periodo turbolento al lavoro, stressante, sotto vari punti di vista, con una voglia incredibile di scrivere e la minima idea di quale sia il punto di partenza. 


Per mesi ho dovuto rimandare. Volevo scrivere, volevo raccontare, creare quella storia che aveva preso vita nella mia testolina e che non riuscivo a tenere a freno, quella per cui ho buttato giù, pur non volendo, 60 pagine e che ho tenuto a freno costringendomi a prendere tempo. 
Ne avevo bisogno, seriamente. Avevo appena finito di scrivere un romanzo, volevo portare avanti il blog e allo stesso tempo prendere aria, staccare dal lavoro, sognare e liberarmi leggendo qualcosina. Qualcosina, in effetti, ho letto, visto che quest'anno ho messo in saccoccia, tra e-book e cartacei, una cinquantina di libri.
Ehm... per contarli mi sono persa. Il punto a cui volevo arrivare, che poi è anche il punto da cui sono partita, è che mi trovo, di nuovo, tra due fuochi. E ora che sono riuscita a prendere le distanze da entrambi, il romance e il fantascienza, devo scegliere quale dei due riprendere e mi sento persa.
AIUTO.
Entrambi hanno una storia costruita e ben delineata. Non devo pensare a cosa far fare ai personaggi o a dove farli andare perché hanno già una direzione e un senso, hanno già caratteristiche definite e forme note. Ed è proprio questo il problema. Facendo la pausa che tanto desideravo ho perso il pathos nei confronti de La Storiella, cosa non del tutto negativa, e quindi mi ritrovo a dover fare una scelta razionale. Buttarmi sul genere con cui mi sono fatta conoscere (eh, eh) o cambiare totalmente e riniziare da capo?
Non si tratta, ovviamente, solo di una scelta basata sui possibili, o non, lettori, ma anche su di me. I romanzi di fantascienza, perlomeno i miei, sono raccontati in modo completamente diverso dai miei romanzi rosa. Sottolineo miei, perché il romance non prevede, sempre e comunque, ironia. Ci sono tantissimi libri romantici drammatici, e quelli che non lo sono non si accompagnano necessariamente alle risate. I miei, fino a ora, sì. Anche se non vi hanno fatto rovesciare dal ridere, l'idea era quella di raccontare l'amore con tutti i suoi pregi e i suoi difetti e soprattutto con il sorriso sulle labbra. Mio, nella stesura e vostro, spero, nella lettura. 


Il mio fantascienza, no. La storia che alla base è seria, pesante, in tutto e per tutto distopica. Non solo per l'ambientazione ma anche per i sentimenti e i caratteri dei protagonisti. Le descrizioni abbondano, anche se non sono fondamentali, i lati difficili dei personaggi emergono non appena possibile, la serietà fa da padrona. Ma io non so se sono brava con la serietà. Non so se sono brava a raccontare storie così dense. Ed è questo il motivo per cui mi sono fermata e per cui, ancora adesso, sono ferma. 
Adoro la trama. Mi piace il mondo che ho costruito, la realtà in cui viaggiano le persone che ci ho messo. Eppure non so se piacerà agli altri. E a questo punto, dopo le tante cose che ho scritto e che non hanno portato a niente, mi chiedo: è giusto che continui per questa strada?
Forse devo solo trovare un beta reader. Che dite?

M. 

venerdì 13 novembre 2015

Tutto il resto

Avevo già fatto presente l'idea che scrivere un libro è solo il primo, piccolissimo passo. Fino a quando scrivevo per me stessa non era così. Scrivere era l'unico passo. Finire una storia, finire un libro, era già un'opera degna di onorificenze di tutti i tipi. Quando riuscii a terminare, dopo circa otto anni di lavoro, l'urban fantasy su cui lavoravo fin da ragazzina, sentii di aver raggiunto un grande risultato. Era solo il primo della saga e mi ci erano voluti anni per terminarlo, ma mi sembrava di aver compiuto un atto eroico. La corona d'alloro non bastava. Volevo la carrozza trainata dalle fatine e la coroncina più bella del reame.
Credo che quel testo non vedrà mai la luce. Povero lui, e poveri tutti quei bei personaggi. Rileggendolo oggi lo trovo, a tratti, un po' noioso. Prima ero molto più attratta dalle descrizioni, a differenza dei tempi attuali per cui leggerne di così lunghe e dettagliate mi fa arricciare il naso, cosa che mi riesce bene visto che ha una punta insolita. Come se non bastasse, storie come la sua erano, e sono state, raccontate da molti in modi eccezionali, per cui oggi mi pare quasi banale, anche se la trama è così complessa da chiedermi come diavolo sono riuscita a pensarla in quel modo. Il primo, quello compiuto, era la storia della madre. Il secondo, scritto a metà, quello della figlia e il terzo sarebbe dovuto essere la degna conclusione di una così lunga avventura pregna di dolore e misteri. Scelsi di inviarlo ad alcune case editrici, le grandi case editrici, e alcune più piccole specializzate nel genere, alla fine del primo. Durante la stesura del secondo, capii che non avrebbe ottenuto ciò che sognavo. 


Chi lo ha letto lo ha trovato bello, intenso e ha anche aspettato il continuo ma io avevo ormai voltato pagina. Non alla scrittura, non al genere, ma a quella storia. Non avevo ancora pensato concretamente al self-publishing e non credevo che lavorare su un libro significasse così tante cose. 
L'ho scoperto un anno fa, con la prima pubblicazione, e poi di nuovo un paio di mesi fa, con la seconda. Da sprovveduta qual ero, pensavo che la storia di un libro, la mia relazione con esso, finisse con la stesura. Al resto ci dovevano pensare gli altri. Alla giusta scelta del titolo, all'editing, alla scrematura. E poi alla pubblicazione. E dopo al marketing e alla promozione. Insomma, mi basavo su un sentito dire che prevedeva un lavoro immane da parte della casa editrice. 
Con l'autopubblicazione si sono aperti scenari nuovi: lavorare su un libro non significa solo scriverlo ma anche, e soprattutto, farlo crescere. Scegliere il titolo, scegliere la copertina, eliminare l'eliminabile, aggiungere ciò che serve. E poi scegliere la piattaforma di pubblicazione, inserirlo, decidere il prezzo, pubblicarlo. E dopo trovare il modo di promuoverlo, di farlo conoscere, di farlo arrivare dove dovrebbe arrivare.
L'ultimo è arrivato insieme a una M. editorialmente cresciuta (dai, ridete tutti insieme a me!), rispetto agli inizi, meno ingenua e più concreta (uhm), ma anche impreparata, immobile di fronte a ciò che non sapeva. Una M. che per evitare di infastidire troppo, dopo le paranoie dei primi due giorni, ha smesso di fare domande ed è stata a vedere come andava (proprio una geniA).
In questo secondo caso, mi sono occupata del prima - scriverlo - e del dopo - promuoverlo - , lasciando la parte centrale agli altri. Scoprire che quasi niente è stato modificato è stata una piacevole sorpresa. Il fatto che il mio prodotto arrivasse ai lettori così come era stato creato, dopo attente analisi, mi sembrava meraviglioso.  E facile. Oh sì, facile. Perché mi toglieva da un sacco di impicci quali dubbi, pensieri, domande, ansie. Aveva eliminato tutta quella parte che con il primo mi era sembrata insormontabile. Perché il lavoro su un libro, volenti o nolenti, prevede:
- un'idea e il suo sviluppo 
- la stesura e la/le sua/sue revisione/i
- l'editing
- la scelta del titolo e della copertina, la creazione della quarta di copertina
- la pubblicazione
- la promozione
- la paranoia. 
Le prime due appartengono solo agli autori e sono la magia più grande. L'ultima forse appartiene un po' a tutti, ed è una perversa ed elettrizzante agonia. Il resto no, o non del tutto. 
Per Il mio supereroe, le uniche cose che non ho seguito per niente sono state l'editing e la pubblicazione. Avevo scelto il titolo prima di inviarlo; la quarta di copertina è stata il risultato di un lavoro combinato e lo stesso vale per l'idea grafica e la promozione. La paranoia, come la stesura, era, ed è, solo mia. 
Ecco, non ne avevo idea. E non so se sia così con tutte le case editrici o solo con alcune. Però è chiaro, chiarissimo, che scriverlo, un libro, è solo il primo passo. Poi c'è tutto il resto.

Voi lo sapevate? 

In attesa che delle fatine steampunk mi trasformino in una principessa/scrittrice strafiga, vi saluto.
  
M.

venerdì 6 novembre 2015

Chi non legge/chi vuole scrivere

Trovo strano che uno dei consigli che si danno a una persona che vuole scrivere sia quello di leggere.  
No, scusate, mi sono espressa male. 
Trovo strano che ci sia bisogno di dire a una persona che vuole scrivere che deve leggere. A parer mio le due cose dovrebbero andare di pari passo. Secondo la mia modesta, modestissima opinione, senza leggere non si può scrivere perché mancherebbero pezzi fondamentali. Lo stimolo, la cusiosità, l'input, la presa visione di ciò che gli altri sanno fare, l'idea, la modalità di intreccio della storia, le caratteristiche dei personaggi. Lo stile. La capacità di emozionare. 
Scrivere un libro senza leggere mi pare impossibile. Eppure c'è bisogno di dirlo. Perché? Cosa spinge la gente che non legge a scrivere? Come puoi voler scrivere un libro se non hai idea di ciò che i libri ti comunicano? 


Quando ero più giovane (uhm) mi facevo meno problemi a dire che scrivevo. Non lo gridavo al mondo, però se usciva fuori l'argomento raccontavo questa parte di me senza farmi troppi problemi. Ma ero giov... piccola, e a parte i miei genitori e i miei amici più stretti, non mi prendeva sul serio nessuno. Gli adulti se ne uscivano con frasi tipo "oh, ma brava, e cosa scrivi?" non simulando in niente la loro vera idea, e cioè "povera sciocca marmocchia, dove pensi di andare?", i coetanei se ne fregavano perché, diciamocelo, a quell'età è facile fregarsene di qualunque cosa. 
Ad oggi le cose sono cambiate, ma nemmeno troppo. Le persone che conosco e che sanno che scrivo sono pochissime, e questo dovrebbe evitare le domande di rito e le insinuazioni, ma non è così, anzi. Tra le prime cose che chiedono/pensano c'è quella che io sia tutti i miei personaggi. Sarei Dafne, e di conseguenza D. sarebbe Alessio, ma sarei anche Angelica, e D. sarebbe Manuele. Quattro personaggi che non hanno niente a che fare l'uno con l'altro, se non per la mancanza di equilibrio e di normalità. 
Ciò farebbe di me una persona dissennata. 
Molto interessante. 
Ammetto che di me c'è molto, in tutti loro. Ci sono i gusti, ci sono le imperfezioni, ci sono le stranezze. In Dafne mi ritrovo per la timidezza e gli occhiali, in Angelica per la follia e l'ironia, ma nessuna delle due è me. Nessuna delle due si è plasmata sulla base di M. Tutto il contrario. Nel secondo caso, con Angelica, ho pensato a come io non avrei risposto, a come io non avrei reagito di fronte a certe situazioni, e le ho fatte sue. 
La seconda domanda che vi pongo, quindi, è: perché quando scrivi un libro la gente pensa automaticamente che il protagonista sia tu?
La terza, ancor più interessante, è: perché tutti vorrebbero scrivere un libro? Non so se ci avete fatto caso ma non è così strano che una persona salti fuori e dica "io ho una storia, ma una storia... prima o poi la scriverò", come se il problema di scrivere un libro fosse solo avere una storia. Io mi auguro di tutto cuore che la fantasia che mi rende la persona che sono non sia una mia peculiarità. Mi auguro che di persone che sognano, che immaginano, di persone visionarie, sia pieno il mondo. Ma non è che tutti devono scrivere un libro. 
O no? 
Il fatto che io abbia tante idee non significa che sarei in grado di creare un fumetto o di scrivere la scenografia di un film. Io non scrivo libri solo perché ho una grande fantasia. Io scrivo libri perché ho bisogno di scrivere. Ho bisogno di usare le parole, di trasformare un'idea in uno scritto, di emozionare gli altri come emoziono me stessa. Ho bisogno che le mie dita battano sui tasti e diano vita a un dialogo che altrimenti non esisterebbe se non nella mia testa. Ho bisogno che il personaggio che si delinea dentro di me prenda vita e cresca mano a mano che lo racconto. 


Non ho iniziato a scrivere storie perché volevo scrivere un libro. Ho iniziato a scrivere storie perché già da bambina sentivo che se non avessi trascritto in un quaderno ciò che pensavo avrei perso qualcosa. Avevo dodici anni quando ho sentito per la prima volta questa necessità. Me lo ricordo ancora. Non avevo idea di cosa avrei scritto, ma dovevo farlo. Che fossero frasi, una dietro l'altra, o il racconto della giornata precedente, poco importava. La necessità si è strutturata solo con il passare degli anni. Le frasi, i racconti, le idee, sono diventate storie quando avevo diciassette anni. Storie fatte bene, che piacessero o meno, a venticinque. 
Ma questa sono io. 
Per gli altri com'è?  Cos'è che spinge una persona a scrivere?

Dopo che vi ho stuzzicato con tutte queste domande spero che mi scuserete, ma non ho ancora fatto colazione e ho un assoluto bisogno di mangiare. 

Com'è che finisco sempre per parlare di cibo? 

M.