In attesa di una sorpresa "da leggere" che arriverà presto, ecco un altro racconto trasferito qui da Wattpad. Buona lettura, e fatemi sapere, se vi va!
Bianca e Gioele. Una notte d'estate. Un cielo pieno di stelle. Novella presente nel blog La Mia Biblioteca Romantica per la rassegna Summer In Love 2017.
UN RITAGLIO DI MONDO
Un triangolo lunare, così vedo il cielo, come se fosse un
ritaglio di mondo da schiacciare tra le dita. Pollice e indice, sempre più
stretti, poi: click. Track. Rotto. Romperei il cielo, e tutto quello che c'è al
di qua, compresa l'umanità che sta al sicuro sotto questa cappa stellata.
Perché? La risposta complessa è che ho un bagaglio pesante sulle spalle che non
ho imparato a gestire. La più facile, è che mi sono preso una cotta colossale –
colossale – per una ragazza che non ci sta.
Mi correggo. Mi sono preso una cotta
colossale per una ragazza che ci starebbe, se non fossi così stronzo da essermi
fatto mezza città prima di lei. Non che lo sappia esplicitamente. Lo sa, ma non
esplicitamente. Lo sa senza che glielo abbia detto io. Perché è chiaro, chiarissimo,
che non gliel'ho detto io. L'unica cosa che vorrei fare, io, è baciarla.
Abbracciarla. E farmi travolgere da questa fissa che mi sono preso a inizio
estate e che da un mese e mezzo mi tormenta.
Sono le due di notte e fa un caldo
micidiale. Infilo le mani in tasca e mi guardo intorno: le case sembrano
disegnate, un quadretto per turisti da tinteggiare con un nero opaco. Le luci
sono spente e mi sorprendo quando ne trovo una accesa. Una finestra aperta, una
tenda che si muove al vento, una figura seduta sulla ringhiera della terrazza.
«Bianca?»
No, non è un caso. Sì, fingo che lo
sia. La verità, la triste, tristissima verità, è che passo da qui ogni sera con
la speranza di vederla. Quando si accorge di me, quando mi riconosce, i suoi
occhi diventano più grandi del normale. «Gioele?» domanda. Il mio nome, tra le
sue labbra, ha un fascino esplosivo.
«Che fai qui, seduta lì?» chiedo
indicandola.
«E tu che fai qui, camminando così?»
chiede sorridendo.
«Ho staccato dal lavoro adesso. Tu?»
«Non riuscivo a dormire. Non ci
riesco mai», risponde seria.
«Perché?»
Scrolla la testa fingendo che non
sia importante, poi guarda il cielo. Io la imito, anche se faccio una gran
fatica a staccare gli occhi dal suo viso. Diciamocelo: del cielo, non me ne
frega niente. Quella strana commistione di luci e ombre che si mangiano il
sole, non mi tange affatto.
«Piuttosto difficile vederlo così,
no?» chiede. «Limpido, senza nuvole. La luna è enorme», continua.
Annuisco, gli occhi su di lei. «Sei
mai stata in cima alla collina?»
«Una volta», risponde.
«Davvero, solo una?»
Annuisce.
«Seguimi», dico. Appena lo faccio il
mio stomaco si attiva, tipo un tamburo.
Si mordicchia un labbro. «Non credo
sia una buona idea.»
Dai, dai, dai. Bianca. Ti prego,
placami. Placa questo bisogno insaziabile, placa me.
«Devi vedere quel posto», la incito.
Prende un respiro profondo, posso
vedere gli ingranaggi del suo cervello che si mettono in moto per trovare una
scusa e non farlo, o un motivo per non cedere, però qualcosa la convince che la
scelta giusta è dirmi di sì. Scende sul terrazzo, chiude la porta finestra e si
allunga sul tavolo per prendere una penna, un pacco di post-it e il cellulare.
Si arrampica sulla ringhiera e fa un salto per scendere. Non faccio in tempo a
offrirmi di aiutarla, il che, probabilmente, dipende dal fatto che sto cercando
di mascherare che sono bloccato. Fisso. A guardarla.
«Andiamo?» chiede. Si passa il dorso
della mano sotto il naso e mi incanta.
Annuisco, e penso a come provarci.
Perché è ovvio che ci proverò. Penso solo a questo. E al fatto che quel
quadretto per turisti potrei quasi lasciarlo così com'è, se c'è lei con me.
Mentre cammino, mentre prendo la salita, mentre guardo il modo in cui si muove,
penso a quel dannato quadretto, a quanto sarebbe più funzionale se dentro ci
fossimo io e lei, per mano. Lei che mi osserva, io che la venero, lei che mi
bacia, io che la respiro.
«Davvero sei stata su una volta
sola?» chiedo.
Si gira, gli occhi enormi che
guardano me, solo me, come non era mai successo prima. Il mio intero sistema va
in malora.
«Sì, davvero. Ho fatto un giro
qualche tempo fa, per caso», risponde. «Tu sei un esperto, vero? Quante ne hai
portate lassù?»
«Cosa? No, no! Perché?» Sto
impastando. Ho la lingua che fatica a muoversi, si arrotola sul palato. Credo
che lo faccia alla ricerca di un modo per togliere il disappunto dal suo viso.
Rimango a guardarla e penso che vorrei baciarla. Che avrei voglia di portarla
fuori a cena, che l'oscurità mi appare quasi indifferente.
«Scusa», reagisce lei, insicura.
«Non ho il diritto di dire certe cose.» Stringe gli occhi e si abbraccia.
«No, è che... merda», replico. Sto
per iniziare a dire tante parolacce, troppe. Sempre che riesca a metterle in
fila e a costruire una proposizione logica.
Muove la mano davanti al viso e
scrolla la testa. «Fa' finta che non abbia detto niente, ok? Non so perché te
l'ho buttata lì, così. Non è una cosa normale. Insomma, no.»
Rimango in silenzio e la fisso. Lei
sorride, poi indica la salita e riprende a camminare. Sto pensando a un modo
per rompere questa assordante assenza di rumori ma non ne trovo, e quelli che
scopro mi sembrano stupidi. La verità, l'ingombrante verità, è che mi piace
stare con lei anche così, mentre camminiamo. Mi piace starle vicino senza parlare.
Mi piace il modo in cui si avvicina, la dolcezza con cui la sua mano sfiora la
mia. Solo che questo, questo dolce contatto, manda in cortocircuito il mio
apparato perché il desiderio di provarci torna e fa scomparire il resto,
specialmente la cupola terrestre sotto la quale viviamo.
Bianca mi dà una gomitata con la
stessa tenerezza con cui fa tutto, poi mi guarda. «Per favore, di' qualcosa»,
mi sollecita socchiudendo gli occhi. «Dovevo stare zitta», mormora.
«No», rispondo turbato.
«Allora parla», mi incita. «O fai
qualunque cosa avresti fatto se non avessi tirato fuori il coniglio dal
cappello.»
Mi fa ridere, e lo fa con il
semplice movimento delle sue meravigliose labbra.
«Vuoi davvero che faccia quello che
avrei fatto senza il coniglio?»
«Sì», risponde decisa.
«Sicura?»
«Sì», conferma, muovendo anche la
testa.
«Sicura sicura?»
Si mette a ridere e mi dà la stessa
risposta.
Ho voglia di baciarla da sempre. Non
solo dal primo incontro alla gelateria, ma da tutto quello che è venuto dopo.
«Hai visto lì?»
«Cosa?» chiede.
«Lì», ripeto, indicandole una parete
dove ci sono delle buffe piante rampicanti e alcuni cocci appesi a dei chiodi.
Si volta in quella direzione e si avvicina. Guarda il muro, poi si gira e ci si
appoggia di schiena. Le sue spalle si rilassano contro le foglie. «È morbida.»
In un secondo sono da lei, davanti a
lei, e metto le mani ai lati della sua testa, sperando che rimanga lì.
«Che vuoi fare?»
Sorrido. «Secondo te?»
«Non dovresti», dice, ma la gioia
campeggia su quel viso delizioso. Sta cedendo.
«Perché no?» chiedo mentre mi faccio
più vicino. Ha un odore incredibile. Non so se è una crema, un liquore, la sua
pelle, ma è difficile non annusarle il collo. Così parto da lì, dal collo, e
quel bisogno terrificante che mi assale quando la vedo torna prepotente, da me
e anche da lei, visto che chiude gli occhi e si ritrae.
«Ehi», la chiamo.
«Ehi», risponde debolmente.
Ho gli occhi puntati sui suoi. Di
solito sono io a muovere la danza che precede un bacio, sono io a incastrare
con lo sguardo la ragazza di turno. Questa volta, però, sono in difficoltà.
Serie. Quei cavolo di occhi. Mai visti così grandi. Mai visti così belli. Hanno
inglobato la via lattea al completo.
Mi bagno le labbra e mi faccio
avanti. È un bacio, Gioele, dai. Quanti ne hai dati? Mi domando, la bocca
vicina alla sua.
«Gioele? Addirittura su un muro?»
Appena sento la voce di Mirco, mi
ritraggo e mi volto. Scuoto la testa e mi acciglio, ben sapendo che Bianca non
ne sarà contenta. Nessuna ragazza lo sarebbe.
Muovo la mano per salutare lui e
Saverio, che sorridono e sembrano intenzionati a metter su un tavolino e a
giocare a briscola. Non mi interessa sapere perché sono in giro a quest'ora.
«Guarda che sta scappando», dice
Mirco qualche istante dopo.
Mi giro e Bianca non c'è. La vedo
scomparire dietro un muro e l'istinto mi urla di seguirla, una strana rottura
da qualche parte nel torace, la notte che mi si avvolge intorno come se fosse
una coperta.
«Grazie eh, stronzo!» lo insulto
mentre le vado dietro.
«Tanto ne trovi un'altra!» urla di
rimando.
Giro l'angolo del palazzo dove l'ho
vista scomparire; non c'è. «Bianca», la chiamo con delicatezza. Non voglio
svegliare tutti, anche se, per come mi sento, andrebbe bene. Che vada tutto in
malora. Il pianeta. Il cielo. Le stelle.
Percorro la stradina e mi fermo solo
quando arrivo a un bivio. Da una parte si sale, dall'altra si scende. Mi perdo
un attimo per decidere quale via seguire e vedo un gruppo di post-it attaccati
alla parete con una freccia disegnata sopra e la sua firma sotto. Poco dopo, ce
ne sono altri due con su scritto rallenta.
Non se ne parla proprio, muoio dalla voglia di trovarla. Sorrido, mi rimetto a
correre ma sono costretto a fermarmi poco dopo. C'è un nuovo bigliettino,
questa volta non ci sono disegni, solo un punto interrogativo. Vado avanti e ne
trovo un altro.
Collezioni
ragazze?
Due passi e ce n'è uno nuovo. Ma non me. Io sono diversa, giusto?
Percorro altri due metri e ne vedo
tre. È questo che dirai, no?
Una nuova freccia mi fa capire che
devo salire. Perché con me è diverso.
Dite
sempre così.
Non so cosa sto provando. La verità
è che vorrei tutto, da lei. Quando ho pensato a Bianca la prima volta, ho
formulato gli stessi pensieri che formulo sempre con una ragazza, cioè: voglio
dormire con lei. Quella è la verità. Solo che sotto, in un mondo parallelo in
cui tutto è uguale ma meno limpido, più melmoso, c'è un'altra verità, quella
che potremmo chiamare la sotto verità. E quella, quella la pensa in modo
diverso. La sotto verità è che non voglio solo portarla a letto. La sotto
verità è che voglio costruirci un intero mondo.
Faccio fatica a concentrarmi, il dite sempre così mi ha irritato. Quanti
ci hanno provato? Soffio aria da un lato della bocca e procedo.
Sappiamo
entrambi che è una scusa per portarmi a letto. Ecco. E io ho avuto solo due ragazzi, continua il
successivo. È senza dubbio il mio preferito. Solo due ragazzi significa che
tutti gli stronzi che ci hanno provato sono rimasti a bocca asciutta, perché
sono sicuro che ci abbiano provato in tanti, e considerato il numero che mi dà,
devo dedurne che non c'è stata. È decisamente il mio preferito.
Attaccati a un cartello di divieto,
ce ne sono due che mi fanno scappare una sonora risata. (Credo sia necessario toglierli tutti, quando
torniamo indietro). Ha messo pure le parentesi.
Ops.
Ho detto torniamo. Esatto, penso.
Non
significa che farai centro. O magari sì.
Altra freccia, continuo a muovermi
mentre sorrido e spero di trovarne un altro. Questo giochino mi sta facendo
impazzire.
Non
lo farai. Ahia, ha cambiato tono.
Per
favore, non lo fare. Questo, questo mi annienta.
Vado avanti e mi guardo intorno.
Sento il cielo che mi preme sulla testa, quasi volesse farmela pagare per aver
pensato di poterlo condensare in un triangolo e demolirlo tra i polpastrelli.
Non ci sono post-it, attaccati in giro, ma c'è il blocchetto a terra e la penna
appoggiata sopra. Per un istante che dura all'infinito, mi sento perso.
Raccolgo il blocco e mi rimetto in moto, notando qualcosa in fondo alla strada.
Lì, in quello scorcio di mondo,
in quel quadrato di notte, nell'apertura di due palazzi, nello sbocco di una piazza, c'è lei. I capelli mossi dal vento, il viso inclinato sul panorama. Arrivo in fondo alla strada e corro. Sento la presenza dell'universo e, vicino a me, il rumore del mare, le luci, lo spettacolo del creato. Ma: non me ne frega niente. L'unica cosa che voglio è dirle che impazzirò, senza di lei.
in quel quadrato di notte, nell'apertura di due palazzi, nello sbocco di una piazza, c'è lei. I capelli mossi dal vento, il viso inclinato sul panorama. Arrivo in fondo alla strada e corro. Sento la presenza dell'universo e, vicino a me, il rumore del mare, le luci, lo spettacolo del creato. Ma: non me ne frega niente. L'unica cosa che voglio è dirle che impazzirò, senza di lei.
Non so perché non mi guarda, forse
non si fida, forse la vista dello spazio le appare più interessante di me. Mi
piacerebbe sputare sopra a questa possibilità ma non voglio che mi veda, così
mando giù il groppo, prendo una penna, scrivo e mi attacco il post-it sulla
fronte.
«Non te lo dirò», dico, facendo
riferimento alle parole che ha scritto poco fa, poi indico il mio viso. Lei si
gira, mi guarda, sembra triste, stringe gli occhi. Io stringo tutto il resto,
compreso il petto. In un modo difficile da capire, in un modo strano da
spiegare, stringo tutto l'universo che ci avvolge. Le case, le persone, i
rumori, il mare, i lampioni. Stringo tutto e lo centrifugo, lo elimino dallo
spazio che mi sta intorno e lo sfanculo. Sì, lo sfanculo. Perché adesso ho
bisogno, davvero bisogno, che creda a ciò che c'è scritto sulla mia fronte.
«Ma è così?» domanda, ripetendo le
parole che ho vergato sulla carta.
«Non vuoi che te lo dica, che sei
diversa, e ormai ti sei fatta questa idea di me perché il paese non parla
d'altro, con te. Solo che non ti ha detto che non succede da un sacco di tempo,
e che quando lo facevo, lo facevo perché non sapevo che... si potesse fare
altro.» Mi stringo nelle spalle. «Usavo il sesso, Bianca, per venire fuori dai
miei casini. Ne avevo una valanga, di casini, e ne ho una valanga anche adesso.
Solo che adesso gestisco i problemi in altro modo.»
I suoi occhi grandi diventano
tristi, preoccupati.
«Niente di che, solo, famiglia,
soldi, droga, sai, quella roba lì.»
Chiude la bocca e deglutisce.
«Oh, no, no, non io e la droga, non
sono io a drogarmi», dico velocemente, le mani che si muovono rapide davanti al
viso. «Che casino, non so parlare quando sono con te, non so nemmeno pensare.»
Mi infilo le dita tra i capelli e le spingo sulla cute.
Bianca si mette a ridere in modo
dolce, quella dolcezza che la rende lei, che me la fa desiderare senza pace,
quella dolcezza che mi riduce in questo stato.
«È così?» chiede.
Capisco subito a cosa si riferisce.
«È così», rispondo. «È così da quando sei venuta in gelateria le prime volte. E
se tu volessi darmi una possibilità...»
Non finisco di parlare. Si avvicina
e le mie vene compiono un moto ondulatorio all'interno del corpo. Prende il
blocco di post-it e la penna, scrive qualcosa e si attacca il foglio sulla
fronte.
Sì.
«Sì?»
Ci pensa, si gira, chiude gli occhi.
Soffia aria, si tocca la pancia, cerca di convincersi di qualcosa. Poi la luce
squarcia l'ombra, buca l'oscurità e la riempie di un bagliore cosmico. «Voglio
darti una possibilità», dice, il labbro inferiore mangiato dall'imbarazzo.
Il cuore diventa un tutt'uno con il
dannato spazio circostante. Mi faccio coraggio e mi avvicino a lei per la
seconda volta, deciso a farle capire cosa sento. Vorrei mangiare le stelle,
farle scrocchiare sotto i denti mentre le rendo polvere cristallina che scivola
su di noi in una danza sopraffina, ma baciare lei vale di più. È più
impellente. È l'impellenza dell'intero sistema che mi governa.
Il naso sul suo, la bocca sulla sua.
Premo le labbra su di lei e il buio sconfinato del tutto si illumina di noi,
del chiarore che sprigioniamo, dell'amore che carichiamo e diffondiamo. Pura
luce, pura vita. Un pianeta nuovo che nasce e cresce sul vecchio. Noi, che
cambiamo l'intero universo con un semplice bacio, con la promessa di diventare
un'unica cosa, un'unica materia, un unico essere.
Click. Track. Rotto. E poi
ricostruito. Io e lei.
Ricordo questo racconto, l'avevo letto, molto carino.
RispondiEliminaGrazie Giulia! <3
EliminaChe bella la possibilità di leggere questi racconti, grazie!!
RispondiEliminahttps://julesonthemoon.com/
Di niente! Grazie a te per esserti fermata! <3
EliminaMolto carino!
RispondiEliminaGrazie mille! <3
EliminaHi! I love your blog. Very interesting post < 3
RispondiEliminaI am following you and invite you to me
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