Ho deciso di iniziare da qui, da Emma, una marmellata, e la capacità innata di immaginare cose che non esistono.
Buona lettura! E se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate e come trascorrete queste strane, stranissime giornate.
DIPENDE DA TE
Di solito è così che funziona. Ti svegli la mattina con
la voglia di stringere le palpebre e nasconderti dietro il cuscino. O sotto le
coperte. Se il senso dell'onore prende il sopravvento, è possibile fare lo
sforzo di arrivare alla finestra ed eclissarsi con la tenda.
A me succede spesso. Perché?
Tanto per cominciare, odio il
mio lavoro. A seguire, le bollette da pagare e il vicino di casa che si lamenta
della mia auto parcheggiata vicino al suo garage.
Ma non sarebbe tanto orribile
se con il risveglio non tornasse la consapevolezza. Quella graffiante e
annichilente consapevolezza che l'uomo che amo si è preso una pausa.
Quando si prende una pausa non
si fa mai per prendere una pausa. La
verità è che non si è capaci di lasciare l'altro per mancanza di qualcosa.
Palle, vorrei dire. Tuttavia mi rendo conto che non è solo quello. Manca il
coraggio, che, detto in altre parole, è comunque palle.
Sembra che il mondo non ne
voglia sapere di smettere di girare intorno a quelle. Le palle.
Ma è chiaro che c'è dell'altro.
Forse l'abilità di staccarsi da un pezzo di vita che è stato nostro. Che ci è
stato donato. Un dono.
Il mio mi è appartenuto per tre
anni, l'ho bevuto e mangiato come cibo. Si chiama Sebastiano.
Sebastiano è la mia metà. La
metà della mela. Della pesca. Della banana. Vista da tutte le sue angolazioni.
E da tutte le posizioni.
Non che da sola non fossi composta,
solo che lui rendeva la sfera più rotonda, il quadrato più definito, il
triangolo più tagliente. Rendeva la marmellata soda, la cioccolata nel
barattolo cremosa, la cucina provvista di un'isola.
Un dono che Antonia ha leccato
via, come una lingua su un cucchiaio. Antonia La Stronza. Che nome, Antonia.
No, ok, non ce l'ho con le Antonia.
«Antonia», dico ad alta voce,
poi mi stropiccio gli occhi.
Sto parlando da sola. Non ho
nemmeno un gatto. Sto parlando al vento. All'aria.
La sveglia suona e mi trovo
costretta ad alzarmi. Con la faccia impiastricciata di trucco e il naso che
cola. Perché la verità è che voglio restare a casa a piangere. Una bolla di
muco. E così che potrei diventare se l'allarme non mi ricordasse di alzare le
chiappe e di mettermi in movimento.
Mi alzo, accendo la luce, e in
un susseguirsi di sfighe succede questo: il mio mignolo si frantuma contro lo
stipite della porta mentre corro per agguantare il cellulare che squilla e che
per la fretta cade a terra. Ricomincio a piangere e con gli occhi gonfi e
lacrimosi premo un pulsante a caso che è il verde.
«Emma?
La mia bocca si abbandona a un
paio di soffi, i miei occhi cercano di visualizzare il nome sul telefono,
superando l'incrinatura dello schermo.
«Emma, tutto ok?»
Se-ano, leggo. Il vetro
protettivo si è spaccato dove dovrebbe comparire il nome del chiamante. Il mio
chiamante. Il mio dono. Sebastiano.
«Emma, ci sei?»
Deglutisco e sorrido, come se
potesse vedermi. «Ehi», blatero. Non lo dico. Quello che esce dalla mia bocca
non è un dire, quanto piuttosto un blaterare.
«Ehi.»
Gli occhi si riempiono di
lacrime.
«Sono due giorni che ti chiamo.
Perché non rispondi?»
La verità è che se fossi stata
padrona di me stessa non avrei risposto nemmeno adesso. Non avrei parlato mai
più alla mela che si è fatta mangiare da Antonia.
È una mela con il buco. E il
bruco. Peloso.
Il bruco sarebbe Antonia, anche
se dal punto di vista anatomico la cosa funziona poco.
«Cazzo, Emma, mi fai
preoccupare!»
Arriccio la fronte e mi
massaggio il naso. Con gli occhi sbircio l'ora sull'orologio e inizio a entrare
nel panico perché farò tardi al lavoro.
«Mi spieghi che succede?»
«Farò tardi.»
«Per dove?»
Increspo la fronte. «Il
lavoro.»
«Emma, è sabato», sospira. «Ok,
devo aver sbagliato qualcosa. O tu hai sbagliato qualcosa. Mi spieghi cosa è
successo?»
«Sabato?»
«Sabato. È sabato. Sono partito
giovedì sera e da allo...»
«Sebi aspetta, suonano il
campanello», borbotto. Mi alzo, claudicante, e apro la porta. Il vicino sfonda palle – sempre lì siamo – mi guarda in
modo strano. Sorride.
«Mi scusi se la disturbo,
volevo solo dirle che...»
«Devo spostare la macchina, lo
so.»
«No, no», dice lui muovendo le
mani davanti al viso. «Non c'è bisogno. Solo che io e mia moglie abbiamo fatto
la marmellata, sa, abbiamo raccolto le more ed erano tante, quindi stamattina
ci siamo messi al lavoro, un po' troppo presto, a dire il vero, e abbiamo
preparato un sacco di barattoli. La vuole?»
«È avvelenata?»
«Come?» chiede lui. Abbassa la
testa e mi fa vedere i vasetti. Sono bellissimi. C'è un'etichetta colorata,
tappi di stoffa, nastri di cotone. Mi sembra di sentirne il sapore. Vorrei
perdermi in immagini bucoliche di me che vivo in una casa immersa nel verde
degli alberi e nell'oro del grano, mentre raccolgo frutta e saltello da una
parte all'altra con un cestino tra le mani, ma devo rispondere.
«Ha avvelenato la marmellata e
tenta di uccidermi?»
Sebastiano, dall'altra parte
della cornetta, ride come un pazzo. Stringo gli occhi e nascondo il telefono
dietro la schiena.
«Sta bene?» domanda.
«Me lo chiede per essere sicuro
che la sua marmellata funzioni?»
«Cosa?»
«La marmellata avvelenata»,
ripeto.
Mi guarda scioccato mentre un
rumore di passi rimbomba per l'androne. Mi volto per vedere chi è e il mio
cuore strimpella aree classiche e sinfonie teatrali.
Sebastiano. Barba lunga,
valigia alla mano, sorriso che ammalia, cellulare tra le dita.
«Buongiorno», dice rivolto al
vicino.
«Buongiorno», balbetta lui.
«Avevo portato della marmellata ma...
«Marmellata alle more!» esclama
Sebastiano, «la nostra preferita», dichiara all'avvelenatore. «Grazie.» Si
abbassa, raccoglie i vasetti e si gira per baciarmi. Un bacio senza veleno,
pieno di noi.
Non saluta il dirimpettaio. Mi
spinge dentro casa, butta a terra la sua sacca, appoggia la composta di more e
chiude la porta. La mia parte multitasking è stata data in dotazione tutta a
lui.
Si avvicina e mi prende il viso
tra le mani. «Emma, stai bene?»
La mia fronte si arriccia, la
mia testa dice no.
«È per l'altra sera?»
L'altra sera, quando ha detto
che Antonia ci provava. Antonia La Vacca. Antonia.
Chiude gli occhi. «Ok, ok,
parliamone.»
Si toglie il giubbotto e torna
davanti a me. «Quanto mi sei mancata! Non facevo un viaggio di lavoro da una
vita.» Mi dà un altro bacio sulle labbra. È come miele.
«Non mi sono lavata i denti»,
confesso triste.
«Che hai?» È triste anche lui.
«È per Antonia?»
Mi appoggio contro il muro. «È
per la pausa», rispondo.
«Quale pausa?»
«La tua.»
La sua fronte assomiglia a un
materassino da spiaggia, tutto onde e verde mela. «Di che pausa parli?»
«Di quella che ti sei preso.»
Fa un respiro profondo e chiude
gli occhi. «Tu sei la donna più pazza che io conosca. Sei paranoica, visionaria
e per niente realista, lo sai?»
Annuisco. Non posso dire il
contrario. Sono tutto ciò che ha detto, e anche di più. Soprattutto quando ho
il ciclo. Se ho il ciclo, il mio intero sistema razionale va a puttane. È come
se ci fosse un virus che fa impazzire ciò che dovrebbe rimanere stabile
rendendomi emotivamente incapace di essere. Come adesso.
«E sei anche la persona più
divertente che conosca. Se solo fossi un po' meno pessimista, saresti
perfetta.»
«È per questo che preferisci
Antonia?» Ricomincio a piangere. Un rubinetto aperto. Una fontana senza
chiusura.
Lui scoppia a ridere. «Sono
davvero un coglione. Non devo mai, mai dirti certe cose in quei giorni.»
Questi giorni, sono questi. È
ora che i miei ormoni gridano "naufragio" e che il mio corpo urla
"al mio segnale, scatenate l'inferno".
Ride di più e mi bacia.
«L'altra sera ti ho detto che Antonia, questa mia nuova collega, mi tampina. E
che mi dà fastidio. Ho detto che non capisce che sono cotto di un'altra.»
«E che volevi una pausa.»
«Da lei.»
«Da me. Lo hai detto e poi te
ne sei andato.»
Si porta le mani sul viso, le
stringe sulla bocca. «Ho detto che se continuava avrei dovuto prendere una pausa
dal suo ufficio, solo che mentre lo dicevo mi è squillato il telefono e sono
dovuto scendere di corsa perché il mio capo era qui sotto. E da allora non hai
più risposto.»
Ho il viso così corrucciato che
potrei usare le linee di espressione per scriverci gli accordi di una canzone.
«Stai piangendo per questo?»
«No», rispondo. E piango.
Ride e mi bacia.
Le lacrime aumentano e insieme
a loro arriva il singhiozzo. «Non mi sono lavata i denti», farfuglio ancora.
«Come?»
«Marmellata avvelenata e
pancakes. Li preparo mentre tu ti lavi, ti calmi e torni la mia donna. La donna
di cui sono innamorato. Quella che due o tre giorni al mese sbrocca, perde la
bussola e diventa il pessimismo fatto a persona.»
Alias: un incrocio tra satana, Pollon e uno yogurt senza zucchero.
Sorrido. Nonostante tutto. Il
mignolo grida vendetta, il telefono proclama sciopero, e io sorrido.
Faccio una doccia veloce, muovo
lo spazzolino tra i denti, mi metto un vestito a modo e collego i pezzi. In
fase di ricondizionamento alla ragione, torno da lui. «Mi dispiace.»
Sebastiano mi guarda e mi
inonda di sé. La mia metà. Il mio mondo. Ciò che mi rende perfettamente
rotonda.
«Scema», mi apostrofa. «Perché
sei così scema?» chiede con un grande sorriso.
Mi stringo nelle spalle e gli
vado vicino. A ogni passo, divento consapevole di quanto le cose non dipendano
dalle cose.
Dipendono da te. Da come le
vedi. Da quanto decidi di essere arrabbiato con l'universo.
Arrabbiato e
deluso. Come se ti remasse contro.
Ed è allora che lo bacio. E che
metto un dito dentro il vasetto di marmellata avvelenata.
Ma questa è un'altra
storia.
Divertente!! una ventata di freschezza in queste giornate "pesanti".Grazie! Azzurrocielo
RispondiEliminaGrazie a te di essere passata, di aver letto e commentato! ^_^
EliminaL'idea era proprio quella di "alleggerire", sono contenta se ha funzionato! <3
Ciao Monica, avevo già letto questo tuo racconto, che è davvero molto carino :-)
RispondiEliminaGrazie mille, Ariel! *_*
EliminaSì, era uno dei racconti già pubblicati in precedenza, sto pensando di riportarli, piano piano, sul blog per renderli leggibili a tutti! <3
Molto carino il tuo racconto Monica!
RispondiEliminaIn questi giorni il tempo oscilla tra lavoro (finora sto andando al lavoro, dalla prossima settimana alternerò con il telelavoro) casa e supermercato...sono preoccupata, ma speriamo bene.
Capisco, Giulia. Questo è uno dei momenti più delicati che ci siamo trovati a vivere. <3
EliminaSono contenta che ti sia piaciuto! ^_^
Fantastico, un raccontino delizioso!!!
RispondiEliminaMi sembra già di conoscerli, Emma e Sebastiano 😍😍😍.
Grazieee! *_*
EliminaFelice che sia arrivato nel modo giusto! <3