Vi va un assaggio di Bianca e il suo mondo?
Questo è il primo capitolo de La scrittrice senza tempo. Spero che vi piaccia. Fatemi sapere!
1
Lisbona
C’era, a Lisbona, un profumo che adorava. Non sapeva identificarlo, ma a
sedici anni le rimaneva difficile identificare tutto. Ciò che le piaceva, era
che poteva percepirlo anche mentre si guardava intorno e i ragazzi e le ragazze
del posto le passavano vicini.
La zona in cui si trovava era gremita di persone e locali. Si era accomodata
su un marciapiede, le gambe intrecciate all’altezza delle caviglie, le mani
raccolte sul grembo, la gente che entrava e usciva da bar e club, lei che se ne
stava lì, immobile.
Il suo scopo era cercare di non concentrarsi sull’unica anima che sembrava
fatta in modo diverso, come se il cielo stesso avesse deciso di metterla in
mostra e permetterle di non farsela scappare.
Ne fissava il proprietario. Anche lui lo aveva fatto per gran parte della
serata. Sostava con gli amici all’uscita di un locale. Parlava, beveva, rideva,
ma i suoi occhi continuavano a rivolgersi a lei. Quando si mosse lasciando il
gruppo e facendosi più vicino, il cuore di Bianca sembrò sbrindellarsi. Il
ragazzo si accese una sigaretta ed espirò il fumo nell’esatto momento in cui si
voltò a guardarla.
Bianca trattenne il respiro. Si ritrovò ad affondare in una consapevolezza
inconsapevole.
Lui. Capelli chiari, di una lunghezza indefinita, cangianti bosco e noce,
labbra carnose e scure, quasi fossero lamponi. Aveva il viso irregolare con
un’ossatura più esposta da un lato e più dolce dall’altro, e occhi castani
talmente rigorosi che a raccontarli ci si sarebbe persa dentro. Non smetteva di
fissarla. La sigaretta che scivolava tra dita, aria e bocca, lo sguardo
incollato al suo, la certezza di essere presente e di non farsi sfuggire
niente. «Non sei di qui, vero?» le chiese.
La voce era sorprendente, come se armonie e funi d’amianto si fossero messe
a cantare insieme.
A Bianca il battito schizzò fuori dal petto. Poi ci ritornò, ma con fatica,
perché non riusciva a rinfilarsi tra le costole. «No», rispose. «Tu sei di
qui?» Si stupì di aver fatto una domanda, tuttavia decise di non darlo a
vedere.
«Non del tutto», mugugnò. «Come ti chiami?»
«Bianca, Bianca Maffi, ma non credo che il cognome sia importante», proseguì
in italiano, consapevole di aggiungere particolari che non sarebbero serviti e
di utilizzare un idioma che forse non comprendeva.
Lui sorrise, una specie di taglio divertito e sconosciuto, e la guardò
ancora. «Parli in modo strano», le disse utilizzando un italiano più curioso
del suo.
«Anche tu.»
Non si scompose, la mano destra sui jeans strappati, la sinistra che
stringeva la sigaretta che Bianca seguiva nei movimenti che la conducevano alla
sua bocca.
La sua bocca. Era quella la cosa da cui non riusciva a staccare gli occhi.
Era formosa e definitiva, quasi quanto la sua voce. Era una specie di forma
senza forma, un lineamento ordinato e simile agli altri, ma differente e pieno,
come una versione discordante, di ultima uscita.
Cercò di non farci caso, né ai pensieri strampalati né alla bocca del
ragazzo, e tornò sulle sue, gli occhi intenti a rilevare la meraviglia che
aveva intorno. Si era allontanata un po’ dalla strada principale, quella dove
gente, musica dal vivo e spazi ricordavano un passato che riviveva nel
presente. Le vie erano ciottoli disposti in modo composto, ed era sopra di essi
che si scatenavano le presenze umane. Musiche moderne, piedi che correvano e
calpestavano e saltavano, capelli che scivolavano sulle spalle e poi,
inevitabilmente, su quegli stessi ciottoli che avrebbero potuto raccontare un
sacco di storie. Lisbona era così, e le piaceva tutto. Non aveva intenzione di
lasciarsi confondere dalla voce tonante e dalla bocca possente.
Voleva pensare ai marinai che vi approdavano e che, come lei, si
abbracciavano a un porto sicuro solo per una notte, o per poco tempo. Il fatto
che si lasciassero avvolgere anche da altro, come gambe o mani, non doveva
portarla a riflettere su cose come baciare le labbra del ragazzo.
Scrollò la testa. Aveva sedici anni e accettava il desiderio che sentiva.
Sua sorella, di pochi mesi più grande, aveva baciato tre ragazzi e ne stava
frequentando uno proprio in quei giorni. Bianca avrebbe dovuto fare da palo,
quella sera, come dicevano gli amici italiani di Carolina.
Carolina di amici ne aveva ovunque, era capace di stringere legami con un
sacco di persone e non perdere mai sé stessa, da nessuna parte. Bianca, al
contrario, smarriva pezzi di sé in ogni città. Beveva, però, culture e vicende,
monumenti e lingue come se fossero bevande, poi le lasciava sedimentare e ci
costruiva delle storie. Prendeva i vocaboli, li metteva insieme e ci infilava
dentro, tra l’uno e l’altro, dei significati. Li tesseva e li cuciva e alla
fine le parole diventavano storie piene di racconti, emozioni e conoscenze.
«Sono per metà italiano», le confidò lui dopo un tempo infinito. Bianca
aveva quasi dimenticato che stavano parlando, persa a sognare il sapore delle
sue labbra.
Vaniglia. No, non vaniglia. Tabacco e caffè, forse menta.
Aveva bevuto qualcosa. Una birra? Luppolo. Alcol.
Fragola, nicotina, limone. Percepì un breve buco allo stomaco prima di
voltarsi e perdersi negli occhi di lui. Perché fu proprio così che successe: lo
guardò e si perse, stupita di come i ragazzi non le raccontassero niente e uno,
uno solo, di cui ancora non sapeva il nome, potesse fare tanto.
«E l’altra metà?» si sentì pronunciare.
«Portoghese.»
La osservava come avrebbe potuto osservare chiunque, eppure a lei sembrava
diverso. I capelli rasati ai lati e scomposti sulla testa, gli occhi scuri e
grandi, la mascella dalla forma angolata, a sinistra, e arrotondata a destra.
Ne era tramortita, impaurita.
«Quanti anni hai?» domandò lui.
«Sedici.»
«Io diciannove», le comunicò quando si accorse che non avrebbe detto altro.
«Mi chiamo Ian.»
Lisbona sparì, come risucchiata dalle tre lettere che il ragazzo aveva
prodotto e che a Bianca si erano infilate in gola secondo una logica illogica,
una dietro l’altra, bucandole mucose e pelle e spaccandole il cuore in due.
Sentì i contorni disfarsi nel petto e ricominciare a battere in parti diverse.
«Ti va di fare un giro, Bianca?»
Troppo, troppo, troppo, le tamburellò lo sterno. Era troppo, per lei.
Non lo conosceva, le piaceva, parlava la sua lingua, ne parlava un’altra.
Doveva cercare sua sorella, voleva stare con lui. La testa e il corpo urlavano
troppe cose, tutte insieme, e nessuna aveva il sopravvento, nessuna riusciva a
cantare sopra le melodie delle altre, e il suono che le arrivava alla testa era
sporco, sfocato, pesante.
Non sapeva gestirlo.
Senza dire una parola, senza nessuno sguardo, senza capire cosa stesse
davvero succedendo, scappò via.
Se vi è piaciuto, trovate il resto della storia qui.
Un abbraccio,
Monica
Un inizio davvero promettente... complimenti, Monica :-)
RispondiEliminaGrazie mille, Ariel! Contenta che ti piaccia! <3 <3
EliminaDavvero belle queste prime righe. Wow.
RispondiEliminaGrazie Giulia, sono molto felice che ti piacciano! <3
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