venerdì 27 febbraio 2015

Libri da leggere

Cari emmelettori,
avete presente l'idea di essere fatti della stessa sostanza dei sogni? Io in questo periodo sono fatta della stessa sostanza del sonno. Faccio fatica a tenere gli occhi aperti, avrei bisogno di bere un miliardo di caffè al giorno (uso una bustina di zucchero a caffè, e se non voglio diventare della stessa dimensione del mondo è bene che eviti e mi fermi a uno), di dormire dodici ore a notte. Faccio fatica anche a mettere insieme i concetti e a trasformarli in parole. Sono stupita del risultato che sto ottenendo adesso, raccontandovi questi particolari.

Da qualche tempo non vi ho più parlato di libri. Sarà che leggo le recensioni, le vere recensioni, di altri blog e mi chiedo perché mi ostino a scrivere delle similcose anch'io, sarà che nessun libro, fino a qualche giorno fa, mi aveva conquistata facendomi perdere ancora una volta la voglia di mangiare, bere e dormire (è probabile che il motivo per cui ho tutto questo sonno dipenda dalle troppe ore trascorse a leggere, anche se ritengo che i veri problemi siano: fare ore piccole a un'età che non lo consente più come dieci anni fa; l'arrivo della primavera... primache?), sarà che non sapevo come parlarvene. Fatto sta che è passato un po' di tempo, e dopo aver riflettuto ho scelto di  raccontarvi... due libri.
 
Il primo è Le regole degli amori imperfetti di Mara Roberti. Se vi piacciono le storie romantiche che non si limitano a descrivere l'amore tra un uomo e una donna ma che esplorano il sentimento toccando luoghi, passioni, bevande, conoscenze e famiglie, allora vi consiglio di leggere questa dolcissima storia. Ho apprezzato la località, l'idea del tè e del suo rituale, il mistero che si cela dietro piccole cose. Sono proprio contenta di averlo comprato. 

Il secondo è composto da tre. Sto parlando de Il cavaliere d'inverno, Tatiana e Alexander e Il giardino d'estate di Paullina Simons. Io ho una grande passione per i romanzi storici perché ho una grande passione per la storia. Dal IX secolo a.C. in poi mi piace tutta e non faccio differenze. Quando ho trovato il primo della saga in offerta su Amazon e l'ho preso, ho pensato: è uno storico, c'è una storia d'amore, mi piacerà, dai.
Mi piacerà? Oh, che illusa! L'ho amato. Ho smesso di mangiare, bere e dormire.
La storia di questi due ragazzi, la Grande storia che distrugge sogni e vite, l'amore che lega le persone, il desiderio che risveglia il cuore e l'anima nonostante le bombe, la fame, la morte. L'ambientazione è reale, ed è proprio quella realtà che fa vivere la storia tra loro due creando un'empatia incredibile. 
Tatiana è una ragazzina ingenua, Alexander un ragazzo-uomo che ha perso tutto. Tatiana è quasi una bambina a cui la vita sottrae, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, ogni cosa. Il sorriso, il cibo, la curiosità. Gli sottrae tutto tranne Alexander, ed è incredibile l'evoluzione che ha la sua figura dalle prime pagine alle ultime. Oserei dire favolosa. E non si ferma, no, perché negli altri due libri la sua crescita continua (all'inizio della storia non ha nemmeno diciassette anni) dando vita a un bellissimo personaggio.
Il secondo volume è altrettanto bello, ancora molto storico e per questo validissimo. Il terzo, seppur bellissimo, perde quasi del tutto la relazione con il periodo, tranne per gli accenni alla guerra fredda e alla  situazione in Vietnam - nella quale uno dei due si ritrova immischiato - e di conseguenza perde l'essenza dei precedenti, ma è impossibile non leggerlo, visto il bisogno di sapere come Tatiana e Alexander riusciranno a vivere nonostante il bagaglio di sofferenza, disfatta, perdita che si portano dietro. 
Nel primo, e in parte anche nel secondo, il protagonista maschile è uno dei migliori che abbia letto negli ultimi anni. Lo è anche nel terzo, chiaramente, ma a quel punto il lettore si è già abituato a lui, a loro, e fa un effetto diverso (nel terzo questi atipici eroi sono adulti, formati, e vivono in un mondo "normale". Nella loro vita presente non c'è la guerra, non c'è la fame, non c'è il dolore, eppure c'è tutto). 
Secondo me è difficile non perdere la testa per una storia del genere.

Li avete letti? Pensate di leggerli? 

M. assonnata vi abbraccia.

P.s.- avevo detto che avrei inserito la sinossi accanto ai libri di cui parlavo, ma ho deciso di raggrupparne 4 insieme e il post sarebbe venuto troppo lungo. Come sempre, se cliccate sopra il titolo del libro sarete rimandati allo store dove è possibile acquistarlo e dove troverete anche la trama.

mercoledì 25 febbraio 2015

Rimettersi in pari

Come buon proposito per il 2015 avevo messo, nella mia lista mentale, quello di leggere più autori italiani. Il secondo proposito, sempre in campo libresco, era quello di leggere più romance.
Fatte queste due promesse (sono partita benino) ho iniziato a cercare autori italiani che non fossero grandi nomi lanciandomi in una ricerca sul web.
Piano piano ne scopro tanti e soprattutto scopro tanta, tanta gente che scrive e e che ha scritto un sacco. E non parlo di persone di sessant'anni che hanno iniziato a scrivere quando ne avevano venti. Nel loro caso è normale aver scritto tanto, credo.
No, no. Parlo di gente della mia età, o anche più giovane, che ha scritto libri su libri, racconti, blog, fanfiction e chi più ne ha più ne metta. Mi sento una caccolina quando li trovo. E li guardo, li osservo, li scruto, li studio con un'ammirazione incredibile. Bravi. Accidenti, quanto siete bravi. Vorrei taaaanto, taaaaaanto, essere come voi. Non glielo dico, chiaramente, perché mi vergogno a scrivergli, però lo penso. Lo penso e mi carico. Dopo essermi caricata mi mortifico e mi riempio di dolci ingiurie perché io ho dormito per molto tempo.
Lo so che nella vita non si va avanti con i se ma con i nonostante, quindi non costruirò periodi ipotetici del terzo tipo che non servono ad altro se non a tirarmi addosso ancora più ingiurie. No. Sto cercando di darmi da fare, di rimettermi in pari. Di scrivere appena posso, di stare dentro questo mondo che tanto mi piace e tanto mi spaventa. Ci metto un sacco di impegno e sono contenta di tutto questo movimento. Solo che ci sono delle attese inevitabili che rendono le cose difficili. 
Le colmo in qualche modo e mi rimetto al lavoro. Lo faccio e intanto scopro altri autori e mi riempio di nuovo di dolci ingiurie quando scovo quelli che a 35 anni hanno autopubblicato tre libri, collaborato con riviste, hanno nel loro repertorio racconti usciti con mille case editrici e testi da loro pubblicati, tre lavori ufficiali, dieci figli e riescono a leggere 70 libri all'anno perché sfruttano la notte.
Perdindirindina. Voglio essere un vampiro. Che cavolo. Io scrivo tre romanzi all'anno, neppure tanto lunghi, e ne pubblico uno, faccio un solo lavoro e leggo 40 libri. La notte dormo. Dormo perché se non dormo il giorno dopo ai miei utenti gli racconto che le pecore hanno conquistato le nuvole con spade di lana e scudi di latte. Dormo perché se non lo faccio mi ritrovo con i cerchi neri di un panda. Dormo perché sono umana. Stupidamente umana.  
Meravigliosamente umana. Ma anche noiosamente umana. Insomma, come faccio? Io provo a rimettermi in pari ma sto comunque dieci chilometri dietro. Le pecore conquistano le nuvole e io combatto con i montoni sulla montagne. La mia spada è il mouse, il mio scudo il laptopt, e combatto come una matta mentre guardo le belanti guerriere che saltellano da una nuvoletta all'altra. Con chi ce l'abbiano non lo so. Se non dormo non posso far funzionare le storie nel modo giusto. 

Insomma, io questo posso fare. Io la notte devo dormire. 
Che ne dite se cerco di rimettermi in pari di giorno? ^_^

M. 

venerdì 20 febbraio 2015

32

Quest'anno compio 32 anni. Lo scrivo in numeri così fa più effetto.
Non che sia necessario, ovviamente. Avere 32 anni significa essere grandicella e non c'è bisogno di ricordarlo scrivendolo in caratteri numerici.


Quando penso alla mia età mi ricordo che i trentenni di oggi sono i ventenni di un tempo, tuttavia credo che sia una cosa che la nostra generazione si ripete per tranquillizzarsi. I genitori alla nostra età avevano lavoro fisso, casa, figli e probabilmente erano già stempiati. No, le mamme no, loro forse si facevano il colore molto più spesso di quanto non serva a noi.
Da questo punto di vista posso ritenermi estremamente fortunata. Non sto dicendo di non avere capelli bianchi. Ne ho in abbondanza, così tanti che intorno alle tempie, da vicino, sembra che abbia dei fili lunari, ma ho una fortuna sfacciata. Ho i capelli grigio topo, quel grigio topo che i parrucchieri definiscono biondo cenere e che la gente normale chiama castano chiaro. Per me sono grigio topo, e lo sono davvero perché i colpi di sole - ah, ah - bianchi non si vedono, si mischiano alla perfezione con la base e mi permettono di rimandare il colore. D. vi direbbe che sto esagerando, che non sono tanti e forse ha anche ragione. Fatto sta che riesco a rinviare qualunque strana colorazione e ne sono contenta. Da adolescente li ho fatti in tutti i modi: rossi, rosso rubino, neri, neri con riflessi blu, neri con mèches lilla - geniale! - biondi. Poi, intorno ai vent'anni, ho scoperto che quello che c'era sotto, quel grigio topo, non era poi tanto male e li ho lasciati così.
Come ho fatto a passare dall'età ai capelli? Ah, sì, mi ricordo.
Dunque. La nostra generazione, quella nata tra il '75 e il '90 è sicuramente una generazione incasinata. Proprio come racconta Dafne, siamo cresciuti, più o meno, nel benessere e siamo stati scaraventati in una crisi economica profonda dalla quale non sappiamo quando verremo fuori. Una generazione che ha fatto l'università, che si è presa i suoi tempi, che ha rimandato il rimandabile. Una generazione in cui i trentenni sono i ventenni di tanto tempo fa.
Io mi sono accorta di non essere più una "enti" a 31 anni, quindi l'anno scorso. Lì ho capito che anche se potevo sembrare più piccola - sono rari i trentenni che dimostrano trent'anni -, anche se mi sentivo una ventenne, ero diventata grandicella. Fino a quel momento non me ne importava un fico secco se in alcuni documenti compariva Sig.ra, né se in dei negozi mi davano del Lei. Poi, non so precisamente né come né quando, ha iniziato a infastidirmi. I ragazzini da qualche anno non mi scambiano più per una loro compagna di scuola e i negozianti, pur sorprendendosi per la mia età - soprattutto le farmaciste - non si dilungano in complimenti come succedeva fino a tre anni fa. Insomma, puoi anche sembrare più piccolo, ma di sicuro non un ventenne.
A 31 anni ho capito che non ero più una ragazzina. Non è mutato niente rispetto ai ventinove, solo il numero e i capelli bianchi. Mi sono sposata a 25 anni quindi non posso dire che la mia vita sia cambiata da un anno all'altro. È cambiato solo il numero. È arrivato il 3. E va accettato. 
Quindi non storcerò il naso se un diciannovenne mi darà della trentenne, non solleverò gli occhi al cielo se mi daranno del Lei in fila al supermercato e non sbufferò se non mi diranno più "trent'anni? Ne dimostri venticinque!"
Non farò niente di tutto questo. Però continuerò a mettere l'anello con i Doni della morte di Harry Potter - solo un amante di HP può capire cos'è - e continuerò a fare quello che ho sempre fatto. Con la sobrietà che mi è sempre appartenuta e con un po' di mascara in più. No, tranquilli, non così tanto da sembrare una cantante rock anni '80.
2 o 3 che sia.

P.s.- ieri in profumeria me ne hanno dati 24! Ah, ah. 

M.

lunedì 16 febbraio 2015

Perdonate, se potete

Miei cari emmelettori,
come state?
Avrei voluto scrivere ieri ma a causa di una notte/mattina un po' ballerina non ce l'ho fatta. Per tutta la giornata ho girovagato per casa e per il pianeta come uno zombie, soprattutto intorno a D., anche lui zombieggiante.
Questa mattina mi sono svegliata con tutti i buoni propositi del mondo ma essendo una giornata NO non sarò molto più reattiva di ieri, pur non avendo nessun tipo di legame con i mangiacervelli.
Ma che meraviglia, eh? Ditemi la verità, preferivate che fosse Alessio a riempire le pagine del blog piuttosto che io? Beh, non è possibile perché al momento, felice del successo ottenuto la scorsa settimana, se la sta beatamente spassando con Dafne. 
Per quale motivo sto scrivendo questo post? Se c'è qualcuno che se lo sta chiedendo probabilmente non è un habitué e merita una spiegazione sia perché è un nuovo arrivato e intendo accoglierlo nel migliore dei modi (Benvenutoooo! *_*) sia perché ha tutto il diritto di sapere cosa troverà qui dentro. 


Mio caro viandante, sappi che sono solita vergare pagine insensate in cui, tra un lemma e l'altro, emerge qualcosa di rilevante. Se la cosa può interessarti accomodati pure nella taverna, siediti a un tavolo e tra una chiacchiera e l'altra, una birra e un po' di pane raffermo è probabile che della rilevanza si farà sentire. No, per il formaggio ti conviene andare un po' più avanti, in prossimità del castello. Qui sono i vaniloqui a far da padroni.

Per tutti gli altri... grazie per aver seguito Alessio. Spero che leggere la sua versione sia stato bello quanto per me scriverla e per lui e Dafne viverla.

Perdonate, se potete, la mancanza di ardore e giocondità. Se li sono mangiati gli zombie. 
^_^

Vi emmeggio,
M.

sabato 14 febbraio 2015

La versione di Alessio - 6

Cose nello stomaco 
«Andiamo in albergo.»
«Mmm?»
«Non possiamo dormire qui. Fa freddo e non abbiamo una coperta.»
Mi sono alzato e lei mi ha guardato come se le avessi fatto un torto.
«…»
«Andiamo?»
«Mm mm.»
Avevo paura di aver fatto qualcosa di sbagliato ma dentro di me speravo che il suo disappunto fosse dovuto al fatto che ci saremmo dovuti salutare e che avremmo dormito a qualche metro l’uno dall’altra senza poterci toccare. Speravo che fosse quello.
«Dormi con me», ho detto una volta tornati in albergo. Con lei avevo sempre paura di fare la mossa sbagliata e di rovinare tutto, ma con il carattere che aveva se non fossi stato io a fare il primo passo non saremmo arrivati da nessuna parte. E io volevo arrivare da qualche parte, anche se non ero sicuro di poterci riuscire.
«…»
«Non voglio fare niente. Ti giuro che non succederà niente. Ho solo voglia di dormire con te.»
Avrei voluto fare tutto, avrei voluto che succedesse di tutto. Avrei voluto baciarla, fare tutte le cose che mi passavano per la mente, stringerla, sentirla su di me, stare dentro di lei. Tutto. Ma non ci avrei provato. Non se il prezzo da pagare era perderla.
«…»
«Puoi sempre andartene, se si mette male.»
Non si sarebbe messa male. No, non l’avrei permesso.
Ha arricciato la bocca e il mio stomaco ha fatto una cosa strana, e quando ha annuito ne ha fatte altre cinque, una di seguito all’altra. Violente e sconquassanti. Lo stomaco non dovrebbe fare cose violente e sconquassanti, non di quel tipo, non in quel modo, non in una persona sana.
Forse avevo un po’ di acidità, forse era esofagite da reflusso.
Farfalle, ha sussurrato una voce. Sentivo pure le voci che insinuavano che avessi delle farfalle nello stomaco. Quella sensazione io non l’avevo mai provata ed ero convinto che fosse un altro il motivo che portava a percepire roba così strana in un organo che svolge la seconda fase della digestione. Lo pensavo mentre mi mettevo il pigiama, mentre mi lavavo i denti, mentre soffiavo guardandomi allo specchio.
«Non tradirmi», ho detto guardando verso il basso. «Non ti azzardare a svegliarti adesso, ok? Dormi, fatti una bella dormita, e domani ne riparliamo. Magari domani sera, quando torniamo a casa.»
Era già sveglio a metà e socchiudere gli occhi e soffiare tutta l’aria che avevo nei polmoni non serviva a metterlo in panchina. Per la prima volta in tutta la mia vita volevo che stesse in panchina. Che cxxxo mi stava succedendo?
Avevo le braccia appoggiate sul lavandino e la testa rivolta verso il mio amichetto quando ha bussato alla porta. Sono andato ad aprire e lei si è schiacciata gli occhiali sul naso. Io mi sarei schiacciato tutto intero sotto una pressa. Era in pantaloncini corti e canottiera, senza reggiseno.
La saliva è scomparsa dalla mia bocca. Era uno spettacolo assurdo.
Mi sono fatto da parte e lei, dopo qualche secondo in cui potevo vedere gli ingranaggi del suo cervello che lavoravano meccanicamente, è entrata.
«Da quale parte vuoi dormire?» ho domandato incredibilmente imbarazzato dopo averle sorriso.
«Fa lo stesso», ha risposto.
Mi sono disteso sul lato sinistro, muovendomi come se non avessi mai avuto una donna così vicina, e lei si è sistemata nel destro.
«Non ho mai dormito con una ragazza. Intendo solo dormito», ho ammesso quando si è girata verso di me. Stavo sprofondando giorno dopo giorno sempre di più.
«…»
«Con te è sempre tutto nuovo. Anche andare al mare sembra diverso.»
«…»
«Anche dormire.»
«…»
«Posso abbracciarti di nuovo?»
«Sì», ha risposto. E giù, altre cose violente e sconquassanti. Che pxlle. Che era quella storia?
Mi sono avvicinato a lei e per un istante ho pensato che avesse voglia di baciarmi, che finalmente avrebbe spento il fuoco che mi animava e avrebbe placato il casino che mi aveva scatenato dentro, ma si è voltata rapidamente. Ho sorriso tra i suoi capelli, annusando il suo profumo. 
Mi piaceva sempre di più.
L’ho abbracciata e si è risvegliato improvvisamente. Non che fosse stato dormiente fino ad allora, ma almeno era riuscito a camuffarsi. In quel momento si è svegliato del tutto e mi sono irrigidito come una statua. Non volevo che Dafne andasse via spaventata dalla mia reazione, volevo che si facesse abbracciare da me, volevo dormire per la prima volta con una ragazza solo perché desideravo stringerla tra le mie braccia.
Oddio, quando stavo messo di mxxxa.
Ero arrivato a un punto così difficile in cui nemmeno le sue labbra sarebbero riuscite a fermare il mondo che aveva aperto.
Non c’era più niente da fare. O forse sì. Dovevo convincermi che ottenendo quello che volevo avrei placato il mio tormento, altrimenti sarebbe stato un disastro.
Io quelle cose nello stomaco non le volevo. Non volevo fare la fine dei miei, né di tutta quella gente che rimane da sola. Ero già rimasto da solo una volta e non l’avrei permesso ancora.
Me lo ripetevo mentre il mio cuore rimbombava contro il suo corpo. Quel corpo maledettamente bello, capitanato da una mente favolosa e da un carattere così strano da fami perdere la testa.
Mxxxa. Mi stava facendo perdere la testa.

venerdì 13 febbraio 2015

La versione di Alessio - 5

O altro che fosse

Ho provato a tenerla lontana. Ho pensato che se non le avessi chiesto di uscire mi sarebbe passata, che se avessi smesso di scriverle sarei tornato in me, ma devo ammettere di non essermi impegnato molto. Le ho scritto praticamente ogni giorno e il fatto che lei non mi contattasse mai di sua spontanea volontà mi dava un fastidio terribile.
Avevo una voglia tremenda di vederla, per questo alla fine ho ceduto e siamo usciti. Siamo usciti e ho imparato a conoscerla e più ci uscivo più la volevo, più la volevo più mi scottavo e più mi scottavo più avevo paura di perderla.
Se ci avessi provato ancora avrei rischiato di mandare tutto a pxxxxne e non volevo. La desideravo, desideravo toccarla ma se farlo significava dover tagliare tutti i ponti andava bene averla solo come amica. Era a questo che ero arrivato dopo giorni e giorni di riflessioni. Appena mi riconoscevo in quel tontolone imbambolato che non riusciva a starle lontano.
Avevo voglia di fare con lei cose che non avevo mai fatto con nessuno. Avevo voglia di condividere quello che avevo sempre fatto da solo, o con gli amici, o con la mia famiglia. I ricordi delle vacanze al mare con i miei sono tra le cose più belle che mi porto dietro. Le risate, il caldo sulla pelle, la sensazione che il mondo girasse nel verso giusto anche se era quello sbagliato. È durato per un po’, è durato fino a quando non ho capito che il mondo girava davvero nel verso sbagliato.
Avevo voglia di mare. Avevo voglia di leggerezza, di tranquillità, di guardare le cose da un’altra prospettiva, e lei me le faceva vedere in un’altra prospettiva. Con lei il mondo sembrava di nuovo aver preso il giro giusto, per questo l’ho invitata a passare un fine settimana al mare con me. Avevo paura che mi dicesse di no e invece sono riuscito a convincerla e siamo partiti insieme.
Quando in spiaggia si è tolta i jeans stracciati e la maglietta ed è rimasta in costume, contro ogni legge naturale mi sono andate di traverso le corde vocali. Era uno spettacolo. Era magra, molto più magra delle ragazze con cui esco di solito, con poche forme e gambe chilometriche. Il suo seno sarebbe entrato dentro un bicchiere e sarebbe stato alla perfezione nel mio palmo. Mi ritrovavo a pensare a quelle cose di continuo e dovevo ricordarmi a forza che ero in boxer e che avrebbe visto tutto se non mi fossi calmato.
Niente palmi, niente gambe, niente lingua, niente seno, niente bocca.
Il mio amico là sotto, però, reagiva anche senza che ci pensassi, come un quindicenne alle prime armi. Sono stato con decine di ragazze ma questo non gli impediva di comportarsi come un ragazzino di seconda superiore. Ok, io mi comportavo come un ragazzino di seconda superiore, lui mi seguiva e basta.
Entrare in acqua con lei, da quel punto di vista, non era una buona idea, mentre il calcio balilla sembrava essere la soluzione per smettere di pensarla in quel modo.
«Ti va una partita a biliardino?»
Ha annuito con il viso arrossato dal sole e gli occhi che risucchiavano tutta la luce del mondo.
Come ero messo male.
Siamo arrivati al bar e ci siamo posizionati intorno al tavolo. Ero sicuro che non si sarebbe mossa bene, che avrei dovuto insegnarle qualche trucco, che avrei trovato il modo di toccarla per farle vedere come muovere il polso ma avevo sbagliato tutto. Era un fenomeno, un vero fenomeno.
«Dove hai imparato a giocare?» ho chiesto mentre per pura fortuna le paravo un gol.
«Sono cresciuta con tre fratelli maschi», ha risposto mentre la coda scomposta in cui aveva raccolto i capelli oscillava a destra e a sinistra. Mi sono fatto fregare da quello. Dai ciuffi sfuggiti che le accarezzavano il viso, dalle opali che brillavano, dalle labbra che si contraevano. Mi ha fatto un gol e io ho pregato di poterlo fare con lei.
È così che la giornata è volata. Quando siamo tornati in hotel mi sono fatto una doccia fredda e in qualche modo mi sono calmato. In qualche modo, perché non sarei mai riuscito a calmarmi davvero. L’ho aspettata giù, davanti alla reception, e quando è arrivata mi sono messo a ridere.
Era rossa come un’aragosta ed era carina da impazzire. No, non carina. Era bella, cxxxo, proprio bella. Con un paio di jeans e una maglietta era bella da morire.
«Ti brucia?» le ho chiesto durante la cena in un ristorante con vista sul mare. Non sono un tipo romantico né sdolcinato ma la luce dell’estate che si riverberava sulle acque del Mediterraneo era qualcosa di giusto per una come lei.
«Mm mm», ha mugugnato sorridendo. «Faccio sempre così. Anche se metto la crema finisco sempre per scottarmi. Perché tu no?»
«Non lo so, forse ho la pelle più resistente. Raramente mi brucio.»
L’epidermide non mi bruciava, ma bruciava tutto il resto. Mi infuocava e non voleva saperne di spegnersi. E mentre camminavamo lungo il mare continuava a infuocarmi e nemmeno la brezza marina mi dava pace. Senza pensarci troppo l’ho presa per mano e l’ho portata verso un lettino. Mi sono appoggiato allo schienale e lei mi si è accomodata davanti. Lo vedevo che bruciava quanto bruciavo io ma non ne voleva sapere di cedere, e io non ne volevo sapere di perderla.
«Ti posso abbracciare?»
Si è immobilizzata e ho temuto di aver fatto il passo più lungo della gamba.
«Non voglio provarci. Ho solo voglia di abbracciarti», ho sussurrato.
In realtà avrei avuto voglia di provarci ma non mi sarei giocato tutto per degli stupidi ormoni. Ormoni o altro che fosse.
Lei ha inclinato un po’ la testa senza dire niente, così io mi sono avvicinato, lentamente, per non farle paura. Non volevo che scappasse o che pensasse qualcosa di brutto di me. Ho appoggiato il viso sul suo collo, l’ho attirata a me e l’ho stretta forte. Con le mani le ho accarezzato la pancia e poi l’ho agganciata, spingendo le sue spalle sul mio petto. La sua pelle è diventata ruvida e quando mi sono reso conto che le avevo fatto venire la pelle d’oca il mio amichetto si è risvegliato.
Non volevo che lo sentisse perché temevo che scappasse. Eppure non l’ha fatto. È rimasta lì, su di me, per tanto tempo, e quando siamo scivolati e siamo finiti distesi ho chiuso gli occhi e mi sono goduto ogni singolo istante avvinghiato a lei.
Mi sono svegliato con il suo corpo che mi tremava addosso. «Ehi», ho bofonchiato, «ci siamo addormentati?»
«Mmm.»
Era un cubetto di ghiaccio. Quando eravamo entrati in spiaggia si era messa la felpa ma evidentemente non era servita.
«Accidenti Dafne, sei congelata!»
«Mmm.»
«Vieni qui», ho detto stringendola forte tra le braccia. Ogni scusa era buona per sentirla vicina, e poi volevo davvero scaldarla, non mi andava che stesse male per colpa mia.
Ho mosso le mani sulle sua braccia massaggiandola e quando ho sentito che la sua pelle era più calda e che non batteva i denti, l’ho stretta ancora e ho appoggiato il mento sulla sua spalla.
Ero messo sempre peggio.

giovedì 12 febbraio 2015

La versione di Alessio - 4

Me compreso

Il bar dove finiamo per andare tutti, in una città piccola come quella in cui viviamo, è il bar più frequentato in assoluto. Ogni tanto mi chiedo perché non proviamo qualche altro posto, perché non usciamo da questo piccolo mondo, ma poi mi accodo al gruppo e mi diverto, in qualche modo.
Stavo chiacchierando con gli altri delle ultime novità a proposito del sistema politico e sociale del nostro paese quando l’ho vista. Le opali che aveva al posto degli occhi erano luminose da far paura e risaltavano sulla sua pelle chiara. Era avvolta in una sciarpa da cui uscivano ciuffi di capelli ed era uno spettacolo da guardare.
Mi sono immobilizzato come un cretino. Francesco mi ha dato una pacca sulla spalla ma nemmeno me ne sono accorto. Non riuscivo a smettere di guardarla e di sicuro non l’avrei fatto se Giada e Sara non avessero iniziato a ronzarmi intorno. Sono pressoché uguali, troppo bionde e troppo truccate, e sono anche uscito con una delle due per un paio di settimane, Giada. Da allora me la ritrovo intorno sempre più spesso.
«Ale, tutto bene?» ha domandato smorfiosa.
«Sì, voi?» ho chiesto senza perdere di vista Dafne. Cxxxo, se ne stava andando.
A malapena ho sentito la risposta che dava la bionda.
«Scusate.» Mi sono congedato senza nemmeno guardarle. Non volevo che Dafne pensasse che stavo uscendo con qualcun'altra. In effetti da quando l’avevo conosciuta non mi era nemmeno passato per la mente di frequentare una ragazza che non fosse lei.
L’ho vista, in fila al bar, e ho visto anche l’occhiolino che il barista le ha fatto. Mi ha provocato una fitta di fastidio.
«Hai già pagato?» le ho chiesto una volta arrivatole vicino. Si è girata verso di me e ha fatto cenno di no con la testa. Mi faceva uno strano effetto l’idea che non riuscisse a parlare per causa mia. Mi faceva piacere pensare che le provocassi lo stesso casino che lei provocava a me.
«Allora faccio io.»
«…»
«Ti ho vista venire verso il bar e ho deciso di seguirti.»
Il barista ci ha servito le nostre birre e lei l’ha subito portata alle labbra. Sì, decisamente, l’idea di provocarle tutto quel casino mi piaceva da morire.
«Andiamo fuori, che dici?»
«Mm mm.»
Ho sorriso sentendola mugugnare e mi sono incamminato verso un muretto, a qualche passo dai tavolini. «I tuoi amici ci guardano.»
«Mmm. Mi dispiace», ha detto lei imbarazzata.
«E di che?»
«…»
«Volevi stare con loro?»
«No», ha risposto velocemente e il sorriso da cretino è tornato sul mio viso. «Tu volevi stare con i tuoi?»
«No, non direi», ho replicato. Ho allungato una mano verso di lei e ho liberato una ciocca di capelli dalla sciarpa. Lei ha osservato il movimento del mio braccio quasi con paura e io mi sono domandato cosa diavolo stessi facendo. Ci stavo mettendo in un casino troppo più grande di noi ma non riuscivo a venirne fuori.
Ha arricciato il naso e ha portato la bottiglia alle labbra. Quanto avrei voluto essere quella bottiglia.
Ho scacciato con forza il pensiero e ho ripreso a parlare. Di noi, del mondo, della gente che avevamo intorno, della mia ex che ci era rimasta male perché le avevo detto che c’era una che mi piaceva, della scuola che abbiamo fatto.
«Sarebbe stato carino conoscere la Dafne adolescente», ho detto.
«Sarebbe stato inutile. Non parlavo.»
«Mai?»
«Praticamente no.»
«Avrei parlato abbastanza io per entrambi», ho ammesso.
«Eri un chiacchierone?» ha domandato curiosa.
«Direi di sì. Ero uno di quelli sempre al centro dell’attenzione. Mi piaceva starci.»
«Allora non mi avresti parlato mai», ha detto sistemandosi meglio gli occhiali.
«Perché?»
«Ero quella che tutti scansavano.»
Di nuovo una fitta di fastidio. Come poteva esistere qualcuno che la scansava?
«Tutti. Io non sono tutti.»
«A 18 anni tutti siamo tutti.»
«Non ne sono sicuro.»
Io non l’avrei mai scansata. Era troppo intelligente perché la gente non le girasse intorno come fanno i pianeti con il sole. Ed era buffa. Mi faceva ridere come poche persone riuscivano a farlo.
«Io penso di sì.»
«Non possiamo tornare indietro nel tempo per verificare. Concludiamo dicendo che a 30 anni non tutti siamo tutti.»
«No, a 30 anni no», ha risposto portandosi la bottiglia alle labbra. Mi attiravano come un magnete ma sono riuscito, di nuovo, a portare avanti la conversazione ed è stato uno spettacolo. Quando Francesco e gli altri sono venuti a chiamarmi per dirmi che sarebbero andati a casa di Simonetta avrei voluto mandarli a quel paese.
Lei si è alzata facendomi un segno con la mano, si è avviata verso i suoi amici e io le sono corso dietro lasciando tutti di stucco, me compreso.
«Mi dai il tuo numero?»
«…»
«Il tuo numero di telefono.»
Se mi avesse detto di no avrei preso fuoco. No, stavo già prendendo fuoco. 
Quando me l’ha dato l’ho segnato in rubrica e le ho fatto uno squillo. Avevo un sorriso così ampio da sembrare un cartone animato che non mi ha abbandonato nemmeno mentre, in senso contrario alla marcia, tornavo dagli altri.


Domenica notte/mattina, ore 3.05:


> Dormi?
Non so perché ero andato da Simonetta. Non me ne fregava niente di stare lì e appena ascoltavo quello che dicevano gli altri.
> No
> Che fai?
> Leggo. Tu?
> Sono a casa di un’amica ma non ho molta voglia di stare qui
> Perché ci stai?
> Perché se vado a casa mi pento di non averti chiesto di passare la notte con me
Avevo appena finito di scriverlo che già mi ero accorto di aver fatto una sxxxxata. Non voleva baciarmi perché aveva paura che la trattassi come tutti e io le facevo credere di volermela portare a letto. Non che non volessi, lo volevo terribilmente. Ma non volevo solo quello. Volevo lei.
> …
> Non in quel senso. Mi dispiace che non siamo rimasti insieme. Non voglio portarti a letto
> …
> Non voglio solo portarti a letto, va meglio?
Cxxxo.
> …
> Ahahahaha! Dai! Sono stato bravo. Non ho più provato a baciarti
> …
> Quando riprendi a parlare?
> Chiacchieri ancora troppo come quando avevi 18 anni :p
Francesco si è voltato verso di me quando sono scoppiato a ridere.
> E tu continui a essere silenziosa come quando ne avevi 18 :D
> Io adesso sono una chiacchierona, a confronto
> Ma non dicevi niente niente?
> Poco
> Eri una secchiona? ;)
Con il quoziente che si ritrova, sicuramente.
> Sempre stata. Tu?
> Al liceo non ero un fenomeno
> …


«Ohi Ale, che ne dici di una partita a poker?» ha domandato Francesco.
Ci ho pensato qualche istante. Avrei voluto dire che non ne dicevo proprio niente ma avevo scelto di stare lì con loro e non con lei, quindi ho rimesso il cellulare in tasca e mi sono unito al resto del gruppo. 
Ero nella mxxxa come mai mi era capitato nella vita.

mercoledì 11 febbraio 2015

La versione di Alessio - 3

Ah beh

L’ho guardata salire in casa e sono rimasto fermo in macchina. Mi sono costretto a ragionare come un trentenne che fa il medico e non come un ragazzino alle prime armi ma non ce l’ho fatta. Ho preso il telefono, l’ho cercata e le ho mandato una richiesta di amicizia.  
Ho cercato di trovare un sistema per porre fine al casino che aveva creato ma non ha funzionato. Non ha funzionato guardare le sue foto, scoprire qualcosa in più di lei, cercarla tra le parole scritte agli amici, tra i post condivisi, tra le pagine che seguiva. Non è servito a niente se non a farmi andare a dormire con un gran nervoso. Per questo la mattina dopo le ho scritto e le ho detto della festa in Sant’Agostino, la festa alla quale speravo tanto che venisse. Se non l’avesse fatto forse mi sarebbe passata, se non mi avesse risposto forse avrei smesso di stare in palla, ma volevo che ci fosse.
Quando è arrivata, vestita in modo così semplice da far sembrare tutte le altre delle marionette, ho capito che non avevo aspettato altro che arrivasse.
Mi stava rovinando e io dovevo trovare un rimedio. La questione andava risolta. 
Un sorriso mi si è aperto sulla faccia mentre andavo verso di lei. Aveva un’espressione intelligente che mi divertiva e che mi faceva dimenticare quanto poco seno avesse. 
«Ciao», l’ho salutata.
«...»
«Sei venuta.»
«Mm mm.»
«Ti va di fare due passi?»
Dovevo portarla via da lì. Dovevo porre fine a tutto prima di diventare uno di quei cretini che perde talmente tanto la testa per una ragazza da non ricordarsi nemmeno più il suo nome.
Istintivamente, senza pensarci troppo, le ho preso la mano e l’ho trascinata fuori dall’ammasso di umanità in cui ci eravamo trovati. Il contatto con la sua pelle mi ha scottato, o forse ero io che scottavo.
Gliel’ho lasciata una volta entrati in Corso Italia. Io non sono il tipo che prende la mano di una ragazza perché farlo significherebbe che ho voglia di… non lo so. Non sono il tipo che prende la mano di una ragazza e basta. Forse perché non voglio che pensino che tra noi potrebbe esserci qualcosa. Io non voglio che ci sia niente, non voglio finire come i miei genitori e non ho intenzione di ritrovarmi solo. Fin’ora è stato abbastanza facile. Nessuna mi ha mai fatto venir voglia di altro che non fosse la superficie. Doveva continuare a essere in quel modo. Volevo rimanere in superficie. Dovevo rimanere in superficie.
Era una serata in cui la città era stranamente piena di gente però una volta usciti dalla zona calda camminare e parlare è stato facile. Parlare, soprattutto. Eravamo come un torrente in piena. Io lo ero e lei mi seguiva, e quando parlava, e parlava più di quanto avessi immaginato, aveva sempre la risposta giusta, sempre l’idea sfiziosa, sempre la proposta funzionale. Per questo quando siamo arrivati al Duomo e ci siamo messi a sedere sulle scalinate, abbastanza vicini da farmi ben sperare, gliel’ho detto.
«È facile con te.»
«Cosa?»
«Parlare.»
«…»
Ha contratto la bocca cercando di reprimere un sorriso ma io non me lo sono fatto scappare. 
«Non ti ho ancora chiesto quanti anni hai.»
«28. Tu?»
«30», ho detto, poi mi sono messo a ridere. «Nessuno dei due l’ha scritto sul suo profilo.»
È stato lì che ci ho provato di nuovo. Mi sono avvicinato a lei e ho sperato, quasi pregato ancora una volta che ci stesse. Bum, bum, bum. Il mio cuore martellava e le mie labbra la bramavamo ma… si è girata. 
Aveva deciso di uccidermi lentamente. 
Mi è scattata una risatina e ho sperato di aver celato ancora una volta la delusione che provavo dentro. «Ok, perché?» ho domandato.
«…»
«Perché ogni volta che provo a baciarti ti sposti?»
Lei non ha risposto così sono andato avanti. «Dimmelo, ti prego. Ho bisogno di capirlo.»
«…»
Volevo una risposta a tutti i costi e il fatto che lei non dicesse niente avrebbe dovuto innervosirmi ma non faceva altro che farmela piacere di più.
«…»
«Non mi è mai successo prima.»
«Quindi è una questione di orgoglio», ha detto sincera e triste.
«No, è che… perché?»
«Perché mi piaci.»
Ho fatto un sorriso da cretino e non ho provato nemmeno per un istante a mascherare quanto mi avesse fatto piacere sentirglielo dire.
«E se uno ti piace non lo baci?»
Ha arricciato il naso e mi ha preso la mano. Io ho spalancato gli occhi, tra l’intimorito e il gasato, lei ha appoggiato le dita sul suo polso.
«Ascolta.»
«Il tuo cuore?»
«Mm mm», ha mugugnato. Aveva gli occhi chiusi mentre il suo cuore batteva sulle mie dita.
«È veloce.»
«Mm mm.»
Ho spostato le falangi, ho preso la sua mano, fresca e delicata, e l’ho messa sul mio petto. Quel contatto mi è sembrato così intimo da aumentare ancora di più i battiti. Una mano sul petto, intima? No, ero più che fregato.
«Che fai?»
«Ascolta.»
«Il tuo cuore?»
«Mm mm.» Le ho rifatto il verso ma lei non è sembrata arrabbiata.
«È veloce anche il tuo.»
«Perché mi piaci», ho spiegato. «E mi piacerebbe baciarti.»
Non poteva capire quanto volessi baciarla.
«Ci conosciamo solo da pochi giorni.»
«Abbiamo 30 anni, non 15. Devo fare richiesta in carta bollata?»
«No?»
Non ce la potevo fare. Non potevo andare avanti in quel modo.
«Ho voglia di baciarti adesso.»
Lei non rispondeva, non si muoveva. Mi guardava e basta. Capivo che era in difficoltà e mi dispiaceva, ma anch’io ero in difficoltà. E io non sono mai in difficoltà. Mai.
«Perché non vuoi?»
«…»
«Dammi una ragione.»
«Sei bello, da morire. Sei intelligente, sei simpatico. Hai tutte le donne che vuoi. Ne hai avute e ne avrai. Non voglio essere una di quelle.»
Cxxxo, se mi ha spiazzato. Quando mai una ragazza appena conosciuta ti dice che non vuole baciarti per un motivo del genere?
«Non vuoi essere una di quelle?»
«Non voglio essere una delle tante», ha spiegato.
«Pensi di esserlo?»
«Lo sono sempre.»
Mi ha fatto male. Sentirglielo dire in quel modo, con quella voce malinconica, mi ha fatto male. Appena la conosco e l’idea che qualcuno l’abbia fatta sentire una delle tante mi fa arrabbiare.
«Nemmeno io voglio essere uno dei tanti.»
Cosa mi stava succedendo?
«Non lo sei. Mi piaci.»
«Ah beh. Che vuol dire? Non ti è mai piaciuto nessun altro prima?»
«No. Non così.»
Mi ha spiazzato ancora. «Ah.»
Mi sarei dovuto fermare. Non volevo ferirla e non volevo ferire me, però l’idea di non vederla più era inconcepibile.
«…»
«Non vuoi più uscire con me?»
Se mi avesse risposto che non voleva mi sarei sentito da schifo ma almeno sarebbe finita. Se mi avesse detto di sì mi avrebbe fatto felice, ma non sarebbe finita mai. E io avrei continuato a scottare.
«Ti va di uscire solo come amici?» ha domandato.
Quella poi, mai sentita. «Non lo so. Non credo. Se una ti piace come fai?»
«Mmm», ha replicato.
«Cosa?»
«Mmm.»
«Mi piaci», ho detto.
«…»
«Mi sembra di avere 15 anni. Non ho mai detto a una ragazza così tante volte che mi piace.»
«...»
«Esci con me», ho insistito. Che cretino. «Ti va di uscire con me?»
«Mm mm.»
Quanto era carina quando faceva quella cosa. «Che cos’è questo “mm mm”?»
«Non so, credo di essere difettata. Ogni tanto si blocca qualcosa.»
Mi sono messo a ridere come non mi succede quasi mai.
«Sei difettata, eh?»
«Penso di sì. È un modo per prendere tempo, credo. Un modo per non dover rispondere.»
«Perché?»
«Non saprei. Forse è solo un’abitudine. Quando cresci con tre fratelli maschi ti abitui a parlare poco. Se facevo discorsi troppo lunghi avevo l’impressione che smettessero di ascoltare. Così ho iniziato a mugugnare e alla fine è diventata una cosa normale. Per me. Un difetto per gli altri.»
«A me non sembra un difetto.»
«Mmm.»
«Ma lo moduli? Nel senso che puoi ummare con significati diversi?»
«Sì», ha risposto increspando le labbra.
«Allora, ti va di uscire con me?» ho provato ancora.
«Mm mm.»
«È un sì?»
«Mm mm», ha replicato sorridendo.

martedì 10 febbraio 2015

La versione di Alessio - 2

Quella stupida cravatta stretta 

La faccia mi si è aperta di nuovo nel sorriso da cretino che mi compariva ogni volta che la vedevo e non ho fatto niente per togliermelo. La cravatta continuava a sembrarmi troppo stretta così salendo l’ho allentata. Speravo che lei venisse davanti con me ma si è subito infilata dietro.
«Accompagno prima te Martina, ok?»
Non avrei accettato un no come risposta. Avevo voglia di baciarla e con Martina in mezzo non ci sarei riuscito.
«Perché?» ha chiesto lei con voce acutissima.
Le ho inventato la prima cosa che mi è venuta in mente. «Perché casa tua è di strada.»
«Va beh, mi puoi accompagnare dopo comunque», ha ribattuto.
«Ma devo fare il giro delle sette chiese! No dai, ti accompagno per prima.»
Se avesse insistito sarei stato costretto a inventarle una balla ancora più grande, tipo che Dafne era mia cugina, o che stava male. O che se non l’avessi baciata la cravatta mi avrebbe stritolato. Mi stava davvero stritolando. E più cercavo i suoi occhi nello specchietto retrovisore, più la cravatta mi stringeva.
«Pensavo che avremmo passato la serata insieme.»
Non le ho riposto. Sì, forse quando l’avevo invitata l’idea era stata quella ma no, in quel momento non lo era più. Non volevo passare la serata con lei. Avrei fatto centro con qualcun altro.
Arrivati davanti a casa di Martina ho sperato che lei se ne andasse senza dire né fare niente di compromettente, ma forse era chiedere troppo. Si è voltata verso Dafne e quasi l’ha fulminata con gli occhi, poi mi si è lanciata contro e mi ha baciato. La tentazione di allontanarla era così forte da farmi sentire la cravatta come ancora più micidiale quindi ho provato a muovermi il meno possibile. Non volevo uccidermi prima di averla baciata.
Oddio, era un pensiero fisso.
«Ciao», ha salutato la donna dal seno prorompente di cui per la prima volta non me ne fregava niente. Ero troppo concentrato sul seno molto più piccolo che era alle mie spalle e che volevo fosse più vicino a me.
«Vieni davanti», le ho proposto quando Martina ha chiuso lo sportello.
«No grazie, sto comoda qui», ha risposto lei arricciando il naso.
«Ok», ho detto sperando che il mio disappunto non trasparisse. «Ti va un caffè?»
«...»
«Una birra?»
«Mmm. Ok, una birra.»
Se non avessi rovinato tutto me la sarei portata a letto nel giro di qualche ora. Mentre cercavo parcheggio continuavo a guardarla dallo specchietto retrovisore e stranamente non me la stavo immaginando nuda. Era facile. Quella strana cosa che faceva con il naso era carina un casino.
Lo abbiamo trovato non troppo lontano da un bar con le poltroncine fuori e con la musica a un volume non esagerato.
Il suo vestito metteva in mostra delle gambe da urlo. «Che prendi?» ho domandato per distrarmi. Era silenziosa ma il suo era un silenzio attivo e io ero così preso da lei da essermi chiuso nello stesso silenzio.
Ha arricciato la bocca e si è messa a sedere. «Birra bionda», ha risposto.
Quando il ragazzo del bar è arrivato ho ordinato due birre e poi ho detto la prima cavolata che mi è venuta in mente. «Non è male qui, no?»
Un cretino. Mi aveva mandato in palla. Per fortuna ha risposto, e ha parlato. All’inizio poco ma via via che la birra le scivolava tra le labbra, che non riuscivo a smettere di fissare, la sua parlantina è aumentata e abbiamo chiacchierato tantissimo.
Fino a quando non si è messa in stand-by. Sarei stato a guardarla per ore. Vestita. Ero messo male.
«Perché non mi guardi mai?»
Insomma, io non riuscivo a smettere di fissarla. Fissavo le sue mani, le sue gambe, la sua bocca, i suoi spettacolari occhi. Erano come due opali, quelle pietre azzurrognole con sfumature di grigio, rosa, verde. E non so nemmeno come mi era venuto in mente perché non me n’è mai fregato niente delle pietre preziose e di sicuro non in relazione agli occhi di una ragazza.
Dovevo portarmela a letto prima di perdere il senno. Se l’avessi fatto, tutto sarebbe finito.
«Mmm?»
«Non mi guardi. Mi parli ma ti giri in un’altra direzione.»
«Non è vero. In macchina, nello specchietto, ti ho guardato.»
Mi sono messo a ridere. Era troppo buffa.
«Ok, ma per tutto il resto del tempo no.» Avevo bisogno che lo facesse. Che mi stendesse. Che mi salisse sulle gambe e mi slacciasse ancora di più quella stupida cravatta stretta. Più la allargavo e più si stringeva.
Ma quando si è voltata verso di me non si è allentata di un cxxxo. Anzi, è diventata ancora più stretta e io ho sperato, quasi pregato, che la soluzione fossero le sue labbra.
Non mi piaceva per niente sentirmi in quel modo.
«Va bene così?»
Ero così in crisi che ho pensato di non piacerle. E se non le fossi piaciuto?
«Sì, grazie. Sono così brutto da meritare anche un respirone?»
«Non direi proprio», ha risposto abbassando gli occhi.
La cravatta si è fatta più problematica. L’ho allargata ancora ma era già a dieci centimetri dalla mia prominenza laringea e non capivo perché mi desse quella sensazione. Mi mancava l’aria.
«Le tolgo», ha detto improvvisamente muovendo le mani sulla testa riferendosi alle forcine che aveva tra i capelli.
«Sono tremende?» ho chiesto.
«Mm mm.»
«Ti aiuto.»
«…»
«Posso?»
Imploravo perché mi dicesse di sì. Avevo bisogno di toccarla.
«…»
Le ho fatto un sorriso da cretino, il sorriso che mi porto dietro dal treno, e l’ho aiutata davvero. Aveva degli strani riflessi dorati tra i capelli castani. E io ero rovinato. Non mi è mai importato niente dei riflessi di niente.
«Stai bene anche senza occhiali.»
Avrei voluto dirle che stava bene senza occhiali anche tra le mie braccia, nel sedile della mia macchina, o nel suo appartamento. Avrei anche voluto dirle che era bella. Bella davvero.
«Quando mi hai visto con gli occhiali?»
Il cuore mi ha fatto una cosa strana. Si è accartocciato per un istante all’idea che non si ricordasse di me.
«A gennaio, in treno. Avevi la febbre. Non ti ricordi?»
«...»
Sì, si ricordava. Il cuore ha ripreso la sua forma e io le ho sorriso.
«Sai, mi sono sempre chiesto perché tu fossi scappata. Potevo accompagnarti.»
«Avevo già avvertito mio fratello.»
«Ma quando sei scesa era già lì?»
«No», ha risposto arricciando la bocca sulla destra.
«Dopo quanto è arrivato?»
«Dieci minuti.»
«Avrei potuto accompagnarti.»
Se l’avessi baciata allora forse non sarei stato in quello stato ridicolo. Se l’avessi baciata allora non mi avrebbe fatto nessun effetto vederla al bar, né chiacchierare con lei dopo una serata di gala.
Dovevo risolvere il problema prima che la situazione mi sfuggisse di mano.
Abbiamo continuato a parlare, abbiamo riso come matti, abbiamo camminato, scherzato e io stavo così bene che non avevo voglia di tornare alla macchina. Di baciarla, sì, ma non di salutarla, e avevo paura. Io non ho mai paura, specialmente di baciare una ragazza. Di solito ci stanno, punto.
Ma con lei avevo paura di fare un casino. Avevo paura di un due di picche. Non sono abituato al due di picche.
Con le mani in tasca e un’espressione da tonto l’ho guardata mentre si appoggiava allo sportello della mia auto. Forse ci stava, così non me lo sono ripetuto due volte e mi sono avvicinato a lei. Fremevo dalla voglia di assaggiare il suo sapore, di passare la lingua su quelle labbra rosa che si arricciavano così tanto ma quando pensavo di aver raggiunto il traguardo mi ha appoggiato un dito sul naso. Assurdo. Mi ha messo un dito sul naso e mi ha chiesto: «Quante ragazze hai intenzione di baciare nella stessa sera?»
Una. Una sola. Ma mi aveva fregato quell’altra e adesso lei non ci stava.
Le ho fatto un sorriso diverso, un sorriso in cui c’era anche il senso di colpa. Io? Senso di colpa? No, impossibile.
«E tu metti spesso un dito sul naso del ragazzo che vuole baciarti?»
«No. È più facile che mi ritragga.»
«E perché non l’hai fatto adesso?»
«Mm mm.»
«Che è?» ho chiesto.
«Cosa?»
«Quel rumore.»
Quel rumore adorabile che usciva dalla sua bocca. Ok, ero fregato. Seriamente fregato.
«Io.»
«Mm mm», l’ho presa in giro. Le ho appoggiato la mano sul fianco e ho provato di nuovo. Ho pregato che ci stesse. Dovevo sentirla tra le mie braccia. Volevo il suo sapore a tutti i costi.
Ma al posto delle labbra la mia bocca si è scontrata con i suoi capelli. Ho sbuffato dolcemente e le ho dato un bacio, annusando il suo odore.
«Profumano di buono.»
«…»
«Ok, ho capito. Non vuoi. Ti riporto a casa, ok?»
«Mm mm.»
Ero fregato. E la cravatta non smetteva di togliermi il respiro.